Una volta in macchina il pentimento è diventato insopportabile, ma era troppo tardi per metterci una pezza. A dire il vero già all’antipasto avevo iniziato a rimuginarci su, saranno stati i formaggi che erano golosi, ruvidi, un po’ a pasta molle un po’ dura, la bocca tutta ovattata, richiedevano un vino del cuore. È arrivato un bel bicchierozzo di Champagne Cuvée Fidèle di Vouette et Sorbee, un Blanc de Noirs biodinamico a base di Pinot Nero (che eleganza!) di grande complessità e freschezza che ha attenuato la smania. Se per te sceglie Fabrizio Pagliardi, è difficile che sbagli. La Barrique è un gran posto, lo sanno i romani, gli avventori, i turisti, gli aficionados, i tanti che negli ultimi vent’anni hanno imparato a bere vino lì dentro. A un certo punto gliel’ho pure chiesto, ma con voce scarica e timida: «Ehi Fabrì, ma un rosato?».
Certo è che il bicchierozzo di Champagne stava bene pure con la giardiniera di Fabrizio. Antica, verdure irregolari, tagli grandi e grossolani anche più della media delle conserve fatte in casa, cavoli, carote, rape bianche, che goduria. Con quella punta di aceto forte e densa che aumenta la saliva e ti fa venire voglia di mangiarne ancora. Il crostino con patè di coratella richiedeva un altro vino nel bicchiere, il desiderio si è fatto più insistente, vorticoso. La timidezza è fastidiosa e fa perdere molte chance. Ho perso la mia con l’arrivo del secondo. Il vino, ogni vino, emette un suono distintivo, una sua voce, ma devi chiederlo, un po’ pretenderlo, è difficile che qualcuno abbia la pazienza di attraversare quella timidezza. «Ehi Fabrì…». Niente, colpa mia.
In ogni caso, il secondo vino è un Riesling meraviglioso, macerato estremo alsaziano, Muehlforst, un grande vino naturale di domaine Clé de Sol, una micro azienda vinicola di 3,5 ettari situata a Ribeauvillé, nel dipartimento dell’Alto Reno. Una bevuta piena e potente. Quante chiacchiere intorno al tavolo, il vino attiva la logorrea, che a volte è profonda e sbarazzina, divertente e scattante, altre triste e nera come la pece. Ma è il vino, cito un collega, ad avere un sapore sovversivo che nessuna intelligenza artificiale può decifrare. Lo amiamo per questo.
Le animelle, forse con una punta di acidità eccessiva, morbide e avvolgenti grazie al magma di patate, accompagnano la fine di una bella serata al femminile. Il pensiero di aver sbagliato vino diventata un chiodo fisso. Sigaretta, qualche parola con le vicine di tavolo che lavorano al Vinaietto, saluti.
Lo confesso: volevo un vino rosato, ho continuato a deglutire per spezzare la voglia, Dio solo sa perché non l’ho scelto. E quindi in macchina, dicevamo, il pentimento era totale. Volevo un vino rosato, come succede sempre più spesso da mesi. L’oste me lo aveva pure proposto, ma la timidezza di cui sopra ha preso il sopravvento. «Prossima volta offro io però…». E magari accetto quel bel rosato da uve Croatina della cantina Filarole che Fabrizio aveva in mano.
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