Capire gli orange wines, manuale pratico per andare oltre la moda

19 Ago 2023, 05:00 | a cura di
La tecnica della macerazione delle uve bianche è più antica di quanto si possa pensare. È tornata sulla bocca di tutti (e nelle cantine) da qualche anno ma il rischio è quello di dare semplicemente sfogo a un'altra moda del vino.

Andando a sfogliare i manuali di sommellerie più in voga in Italia, nella parte dedicata al colore del vino, fino a qualche anno fa non era inusuale imbattersi nella definizione "bianco carta", un punto cromatico praticamente quasi neutro che andava a definire alcuni vini bianchi talmente diafani da non avere sfumature né verdoline né giallognole.

Gli orange wines, le anfore di terracotta e i metodi tradizionali

È in risposta a questa tipologia di vini, figli di vinificazioni tecnologiche portate all'esasperazione, che intorno agli anno  '90 nascono gli orange wines. In effetti non è proprio corretto paralre di nascita; sarebbe più giusto dire che questi vini dai colori aranciati, ambrati, giallo carico, sono stati riscoperti. Perché probabilmente, nelle campagne italiane (e non solo italiane) quei vini lì ci sono sempre stati, frutto di vinificazioni molto tradizionali e senza l'aiuto di nessuna tecnologia

 

Ma andando ancora più lontano, nel tempo e nello spazio, arriviamo nella Georgia di oltre 3000 anni fa a riesumare un antica pratica di vinificazione che prevedeva la produzione di vino da uve bianche con il mosto a contatto con le bucce e i raspi, fatto fermentare e maturare, anche per molti mesi, all'interno di anfore in terracotta (i kvevri) sigillate e poi interrate per una sorta di controllo della temperatura di fermentazione ante litteram (fatto su cui alcuni vignaioli artigiani di oggi dovrebbero un po' riflettere): questa pratica è tutt'ora in voga nell'ex repubblica sovietica ed è così antica e identitaria che l'Unesco, nel 2013, ha riconosciuto la vinificazione nei kvevri Patrimonio Culturale Immateriale dell'Umanità.

Il perché dell'importanza di questo contatto tra bucce e mosto è presto detto: in un periodo storico in cui non si era a conoscenza del lievito e della sua azione, erano gli organismi presenti sulle uve e nei residui sul fondo delle anfore a innescare il processo fermentativo.

La macerazione e i maestri del colore: produzione degli orange wines

Ma come si produce un orange wine? Semplicemente facendo macerare le bucce delle uve bianche con il mosto da esse ricavato, un processo che può durare poche ore ma anche diversi mesi, ovviamente con risultati molto diversi. Nel primo caso avremmo a che fare con un bianco macerato cui il contatto con le bucce avrà donato soprattutto un colore giallo brillante con riflessi dorati; nel secondo caso, quando le macerazioni iniziano ad allungarsi, oltre alla definizione cromatica e al profilo aromatico a cambiare sarà soprattutto la tessitura in bocca: il vino ora sarà davvero "arancione" e dotato di maggiore consistenza al palato e di una sensazione pseudo-tannica.

I recipienti utilizzati per questa lavorazione posso essere diversi: acciaio, legno, terracotta, cocciopesto: dipende un po' dal risultato finale che il produttore vuole ottenere. Le fermentazioni, come accennato, possono essere spontanee, ovvero senza l'aggiunta di lieviti, o innescate. E le uve? Ce ne sono alcune più adatte di altre: generalmente si prediligono quelle dotate di una buccia più spessa, in grado di sostenere lunghi periodi di macerazione. Una delle migliori è la ribolla gialla, autoctono friulano, e infatti non è un caso che la riscossa degli orange wines italiani parta proprio da due produttori friulani, Joško Gravner e Stanko Radikon che con il loro lavoro hanno dato impulso a tutto un territorio, la zona di Oslavia, regina nella produzione di questa tipologia di vini.

All'origine della moda

Ma da Oslavia l'onda arancione si è propagata davvero in tutta la Penisola, spesso sottobraccio al movimento del cosiddetto vino naturale. All'inizio la macerazione dei bianchi era vista come fumo negli occhi da parte dell'enologia più classica (e reazionaria), ma col tempo, forse complice il successo di questi vini sul mercato e la curiosità in grado di suscitare nei consumatori, questa vinificazione così tradizionale ha iniziato a infiltrarsi anche nelle cantine di aziende che certo non possiamo far afferire al suddetto movimento artigianal-naturale.

Josko Gravner

Dal Piemonte a Pantelleria nei nostri panel di degustazione sono sempre di più i campioni che ci capita di assaggiare: a volte i risultati sono sorprendenti, vini di un fascino ammaliante, con profili aromatici tanto sfaccettati quanto complessi, con uno spessore palatale calibrato che non cede mai alla mollezza.

Altre volte abbiamo a che fare con bouquet magari meno precisi, ma un bocca dotata di energia e ritmo proprio grazie ai sussulti tannici dati dalla macerazione. Altre volte ancora invece dobbiamo fare i conti con vini del tutto inappropriati, difettati, astringenti, solo torbidi, per nulla piacevoli, pesanti. Sta alla sensibilità del singolo produttore creare l'uno o l'altro vino, andando a vagliare quali sono le potenzialità ma soprattutto le criticità "macerative" delle sue uve.

I vini inutili

Lasciare semplicemente un'uva bianca a macerare e aspettare i risultati non può essere la strada giusta; produrre orange wines solo perché "va di moda" e il mercato lo richiede, neanche. Soprattutto quello che ci preme sottolineare è che non si può "macerare per macerare", è una tecnica che non può rappresentare il fine, ma deve essere semplicemente un mezzo.

Perché quando diventa il fine, è allora che i vini sembrano tutti uguali, non emerge il carattere del vitigno, non emerge il territorio, quando addirittura ad emergere non siano soltanto i difetti. Abbiamo tanto stigmatizzato nel tempo l'appiattimento stilistico e gustativo dato dal massiccio utilizzo di barrique nuove; non vorremmo trovarci nella situazione di fare altrettanto con la macerazione, una tecnica tanto tradzionale, quasi "povera", che se ben eseguita è in grado di raccontare non solo zone e uve, ma anche le persone.

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