L'attacco al biologico lanciato dal professor Luigi Moio, presidente di Oiv, lascia sul campo un tappeto di polemiche, ma soprattutto di riflessioni che puntano a definire cosa sia l'agricoltura di qualità, cosa significhi sostenibilità e cura dell'ambiente. Domande e risposte che si concentrano sulla viticoltura che dell'agricoltura è da tempo una punta avanzata di grande valore. Il biologico non ha fondamenti scientifici? È davvero una potenziale trappola per i viticoltori - come dice Moio - o invece è un modo serio di produrre qualità? Ne parliamo con Ruggero Mazzilli, agronomo piemontese da oltre 40 anni attivo sul fronte del biologico e titolare della Spevis, la Stazione sperimentale per la viticoltura sostenibile.
Partiamo dal primo punto: davvero il biologico non ha basi scientifiche?
Questo non è vero. Di certo la prima motivazione che ha portato al biologico è un ideale ambientalista ed etico, ma da oltre un secolo sono state prodotte prove scientifiche di grande importanza (tra i tanti cito Albert Howard). Anche noi all'inizio siamo stati spinti dall'entusiasmo ecologico, ma ci siamo presto resi conto che per essere vincenti avevamo bisogno di conoscenze, strumenti e tecniche migliori. Così circa 20 anni fa abbiamo fondato la stazione sperimentale Spevis che si occupa di individuare e sperimentare le soluzioni più adatte ed evolute per la viticoltura bio. Da subito abbiamo creato una rete di stazioni meteo molto estesa e puntuale utilizzando i sensori wireless per acquisire i dati climatici in vari punti all'interno dei vigneti (non solo sulle capezzagne). Questi dati vengono inseriti in algoritmi per la modellizzazione epidemiologica dei principali parassiti-patogeni e per le previsioni meteo localizzate: questo ci ha permesso di gestire la difesa non a livello di singole aziende ma di comprensori più o meno vasti (funghi e insetti non conoscono i confini di proprietà e si muovono nel territorio a prescindere da questi, noi dobbiamo imparare da loro con monitoraggi e strategie coordinate tra le aziende limitrofe). Così abbiamo fondato i primi biodistretti del vino (che sono partiti dal basso ossia dagli stessi vignaioli): tutto ciò ci ha fatto capire che il bio non è l'obiettivo (che resta la qualità dei prodotti), ma lo strumento migliore per raggiungerlo. E così abbiamo anche chiuso il cerchio in termini di sostenibilità: non solo ambientale, ma anche economica (contrariamente a quanto si sente spesso dire).
Luigi Moio parla di quanto sia importante seguire la vocazione del suolo, ma afferma che la pianta deve essere difesa e che non è certo con i trattamenti biologici che si difende. Dice, anzi, che col bio la si indebolisce…
Sono assolutamente d'accordo sulla prioritaria vocazione del suolo e dell'ambiente intorno al vigneto (genius loci), visto che suolo e ambiente c'erano prima del vigneto e ci saranno anche dopo. Nei posti vocati, la buona gestione bio (senza veleni e senza bugie) incrementa di anno in anno l'adattamento delle piante (resilienza) che così diventano più robuste e non più deboli. Il trattamento fitoiatrico è l'ultimo atto della difesa che inizia dalla scelta dell'ambiente, dalle modalità di impianto e dalla gestione agronomica. Se gli impianti sono fatti-gestiti male e nei posti non adatti, le piante diventano fragili e allora non ci sono trattamenti (bio o non bio) che le salvano. Se le cose sono invece fatte bene e per tempo, tutto è più facile e funziona meglio, c'è bisogno di meno interventi e si creano i margini economici per una raccolta selettiva. Di tutto ciò se ne può discutere quanto si vuole, ma quello che conta sono i fatti: se non si conoscono questi fatti, allora si esprimono solo opinioni per sentito dire. In italia e nel mondo ci sono tantissimi bravi vignaioli che producono vini importanti in questo modo e loro, come noi, lavorano a cielo aperto e si possono visitare per rendersi conto di queste realtà.
È vero che l’uva sana non si riesce più a fare, come sostiene lui?
Certamente chi è ancora fermo alla bucolica ideologia ambientalista ha molte difficoltà a fare una buona uva bio tutti gli anni. Se poi si fa bio solo per opportunismo commerciale il fallimento è scontato. Le tante conoscenze e gli strumenti oggi disponibili, però, permettono se ben utilizzati di avere successo col biologico anche nelle annate difficili: non è mai facile capire cosa-come è bene fare, ma con l'esperienza, con l'umiltà e con una buona sinergia tra produttori-tecnici-operatori i problemi si risolvono sempre. Semmai oggi sta diventando sempre più difficile per le aziende riuscire a farlo nei tempi giusti (per esempio a causa della poca disponibilità del personale).
Si sta davvero piantando troppo in posti non vocati? E per quanto riguarda il bio si sta esagerando a farlo là dove non può essere fatto?
È vero, ma la ragione non è certo il bio: semmai l'illusione di poter difendere ovunque i vigneti dalle malattie con prodotti artificiali sempre più performanti (!) I prodotti di sintesi sono nati per rendere più facile e sicura la protezione delle piante, ma questo ha causato la riduzione delle competenze agricole e agronomiche. E la migrazione della viticoltura verso i posti più comodi, ma meno vocati (per non parlare poi delle manipolazioni genetiche che, se saranno autorizzate, spingeranno ancor più in questa direzione): con l'obiettivo di ridurre i costi di produzione supportati anche da una meccanizzazione oltremodo spinta. La sanità delle uve è il primo presupposto per fare qualità, ma la sanità non può dipendere da un pesante protocollo fitoiatrico bensì da un ambiente sano (vocato). Di sicuro non si può fare viticoltura bio dappertutto, ma non si deve fare viticoltura dappertutto! Quindi il bio è il vero riferimento per la zonazione viticola perchè dove non si può fare bio non si può fare qualità.
Forse le regole non sono così stringenti…. rame e zolfo bastano?
Al momento non ci sono fungicidi bio più efficaci di rame e zolfo, ma se ne possono ridurre molto le dosi e migliorare le prestazioni con alcuni prodotti naturali alternativi. Nel nostro vigneto sperimentale da anni testiamo (con rigorosi criteri fitoiatrici) tanti nuovi principi attivi di origine minerale e microbiologica: per quelli che riteniamo interessanti mettiamo poi a punto (con prove di strategia) le modalità per impiegarli negli interventi aziendali. Nelle annate/zone facili questi prodotti possono sostituire rame e zolfo, in quelle difficili li potenziano pur abbassandone i dosaggi e quindi l'impatto ambientale. Se si dovesse abilitare un bio "aperto" con la possibilità di utilizzare in casi eccezionali un prodotto di sintesi sarebbe la fine del bio: perchè ogni stagione presenta momenti cruciali in cui è facile darsi un alibi per cedere alla tentazione di sgarrare.
Ma non sarebbe meglio, come dice Moio, concentrarsi sulle varietà autoctone? Mentre le varietà internazionali più precoci stanno soffrendo di più...
Sono d'accordo: l'adattamento di una varietà all'ambiente non si improvvisa ma richiede molto tempo e comporta non solo una migliore performance qualitativa ma anche una minore suscettibilità agli stress e alle malattie tipiche del luogo.
Altra cosa scientifica di cui parlare è il portainnesto. Moio segnala che il ritorno al piede franco (con radici proprie, non derivante da una barbatella ricavata per innesto di una marza europea su radici di piante europee) sta facendo ripartire la filossera: le risulta?
La vite franca di piede sta benissimo, ma solo dove non c'è la fillossera: in Europa ciò è possibile solamente in pochissimi posti. Tra l'altro in vecchi impianti prefillosserici (quindi ultracentenari) abbiamo rilevato un'incidenza di mal dell'esca molto bassa. Le ragioni di questo possono essere diverse (materiale genetico, assenza o basso livello di meccanizzazione...) ma l'innesto è certamente un ostacolo alla circolazione della linfa. Non potendo in generale fare a meno del portainnesto, è dunque fondamentale scegliere quello più adatto (all'ambiente e alla varietà) utilizzandone spesso diversi all'interno dello stesso vigneto.
Moio parte da una riflessione critica di base: si sta spostando il focus dalla terra alla tecnica produttiva, seguendo le mode: dall'anfora ai vini sott’acqua, dai macerati ai naturali... Da agronomo, lei crede sia davvero così?
Penso di sì, ma questo non vale solo in cantina ma anche in vigneto. E, come in questa discussione, anche il bio viene giudicato come tecnica produttiva di moda: la verità, però, è che l'imprinting territoriale dei vini rimane la base dell'enologia e il bio è l'unico modo per valorizzarlo. Non è mai stato venduto un litro di vino senza specificarne l'origine geografica (le doc sono nate proprio per il vino) e tutti i grandi vini hanno una forte connotazione territoriale. Ma l'imprinting territoriale nasce in vigneto, non si può creare in cantina (dove anzi lo si può distruggere): non ci sono strumenti miracolosi che creano o esaltano il terroir, per fare un grande vino territoriale non bisogna fare qualcosa in più ma qualcosa in meno.
Gli agenti che agiscono sull'espressione del terroir non sono solo le risorse native, ma anche le azioni antropiche, nel bene e nel male: introdurre nei terreni e nell'aria sostanze non presenti in natura innesca una serie di alterazioni a catena con ripercussioni importanti (e tragiche) sia sui caratteri dei frutti che sull'ambiente e sui suoi abitanti (noi inclusi). Questo non lo dico io, ma un'ampia e imparziale documentazione scientifica.
Ultima cosiderazione. Dice Moio che i cambiamenti climatici ci portano verso stili diversi da quelli che chiede il mercato… Cosa ne pensa?
I cambiamenti climatici sono un grosso problema che richiede di modificare molte strategie di gestione del vigneto. Gli agenti di malattie si riproducono velocemente e quindi si evolvono e si adattano molto più rapidamente delle piante che da parte loro, come autodifesa, hanno accelerato il ciclo produttivo (dopotutto il loro obiettivo non è fare vino ma sopravvivere e riprodursi). Ma ancor più grave è il cambiamento sociale da cui deriva la grossa difficoltà di reperire manodopera formata (e questo è un problema politico non agronomico). Ed è innegabile che il cambiamento sociale ha influito tantissimo sui consumi e sui mercati causando spesso anche un differente atteggiamento da parte dei produttori.