«Per lui il vino era solo dolce», dice il figlio Giampiero. Quando qualche burocrate romano bussava alla porta dell'azienda agricola in cerca di uova, formaggio, olio o vino lo pregava di mettere una parola buona «a Roma» perché a quel nettare rosso dolciastro, dal gusto eccezionale, venisse dato il giusto riconoscimento. Nel suo immaginario quegli uomini con i colletti inamidati erano burocrati che venivano dalla Capitale dei ministeri. Delle persone che contano. Mentre il vino della sua Montefalco non se lo filava nessuno. Non c'era la Doc, tanto meno la Docg. Erano gli anni Settanta. È stato un contadino vero, Paolo Bea. «Più che il vino amava le sue Chianine». Si è spento il 10 gennaio all'età di 94 anni nella sua Umbria.
In nome del padre
Agricoltore, allevatore di vacche e potatore per passione e professione, beveva solo Sagrantino passito, padre di Giampiero e Giuseppe. Il primo, ormai da alcuni decenni, ha preso in mano quella che era un'azienda a conduzione familiare - «una piccola tenuta che provvedeva alla nostra sussistenza» - e l'ha trasformata in una cantina stimata, simbolo del primo movimento del vino naturale, dall'agricoltura gentile. Giampiero Bea è tra i fondatori, nel 2004, di ViniVeri, consorzio che hanno contribuito a far nascere anche produttori come Angiolino Maule, Fabrizio Niccolaini e Stanislao Radikon. Poi in parte le loro strade si sono divise.
La cantina ha sempre portato il nome del padre, nonostante Paolo non fosse un vignaiolo fervente. Non è mai stato «un padre padrone», e alla sua famiglia, anche se con pochi mezzi, «non ha mai fatto mancare nulla». Quella che lascia è una grande eredità di insegnamenti intorno alla terra, alla campagna, alla vita che si sviluppa in mezzo alle colline. E dunque il rispetto per un uomo di un tempo che viveva in semplicità passa anche per un nome ancora impresso sull'insegna. E che rimarrà.
L'amore viscerale per il Sagrantino
«Aveva un profondo rispetto per il territorio, che mi ha trasmesso», dice Giampiero. E nutriva una «sincera» e «viscerale» passione per il Sagrantino passito «ma non aveva l'ambizione di imbottigliarlo». Una ventina di Chianine, due scrofe, due pecore per fare il cacio. Questa era tutta la sua economia di sussistenza, tipica della guerra e dei decenni a seguire.
«La sua prima passione erano gli animali». Un impegno enorme che combinava con il lavoro in campagna e che non lo lasciavano libero né di notte né di giorno. Quando finiva con le piante, iniziava con l'accudire i vitelli, pulire le stalle, occuparsi della monta. Un giorno mezza famiglia si trovava a Viterbo per un evento importante, il figlio Giuseppe prestava giuramento nell'Esercito, poi il pranzo a Terni per ritrovare alcuni amici e parenti. Squilla il telefono, chiamano Paolo che si alza e va a rispondere: "Chi è?". Non sono seguite molte parole, senza neppure pranzare hanno preso le poche cose che avevano con sé e sono tornati a Montefalco. «Una delle Chianine stava partorendo».
È stato tutto questo Paolo Bea, che sì produceva vino sfuso, sì amava il Sagrantino (che come qualche anziano della zona chiamava anche "rosorio"), ma non aveva ambizione di imbottigliarlo. Passo decisivo che ha lasciato fare al figlio negli anni Ottanta. Però ci teneva al prodotto del suo territorio. Teneva fortemente che arrivasse un riconoscimento. Ne parlava con chi lo andava a trovare e riteneva più "potente" di lui: «Dottò, dottò, faccia qualcosa per questo vino, nessuno lo apprezza, ma senta quanto è buono, ci aiuti a dargli notorietà», diceva.
Poi è arrivato Giampiero che ha imbottigliato le prime 700 bottiglie da una piccola botte da 500 litri. Sfruttando la sua passione per la grafica ha disegnato etichette inconfondibili. E da architetto ha costruito una cantina all'avanguardia, dai colori tenuti, in cui risalta il colore violaceo dell'uva messa ad appassire.
«Papà non ci credeva molto nel vino imbottigliato ma rispettava le mie intuizioni. Questo è il suo secondo grande insegnamento».