La via Emilia spacca a metà quel mondo di vigne che è la zona più classica del lambrusco, tra Modena e Reggio Emilia: vigne a perdita d’occhio e case di mattoni a giganteggiare in quel paesaggio arso di sole d’estate, freddo e bagnato d’inverno. L’anima del Lambrusco è nascosta lì in mezzo, tra i campi e gli argini della pianura e le colline che salgono verso l’Appennino dall’altra parte. Nel mensile di agosto del Gambero Rosso abbiamo intrapreso un viaggio in sei tappe, tutte da percorrere.
Il paesaggio del Lambrusco
Questo del Lambrusco - dei Lambrusco, anzi - è un paesaggio poetico che nasconde a volte, ma che distribuisce però emozioni e suggestioni con generosità in ogni stagione, con una chiara preferenza per l’inverno - ma in estate vince il paesaggio – quando nelle giornate grigie e fredde si ammazza il maiale. Rito, condivisione, lambrusco a fiumi. È una geografia di meraviglie e diversità ancora tutta da raccontare, un grande inedito italiano, pieno di gente perbene e strade che incrociano caseifici, acetaie, trattorie, case del popolo, campanili, bar di paese dove ancora si gioca a carte.
Un viaggio in 6 tappe
Bisogna macinare parecchi chilometri in queste provincie perché emerga pian piano una mappa chiara delle diversità, perché il Lambrusco non è semplicemente un vino, ma un mosaico di identità che parlano una lingua comune per dire cose diverse, a volte anche molto lontane fra loro. Eccoci allora a fare un viaggio in 6 tappe, le stazioni irrinunciabili di questa geografia custodita gelosamente dagli emiliani, a dispetto delle stagioni folli e visionarie del “Lambrusco ricetta”, vino industriale che ha portato nel mondo milioni e milioni di bottiglie. Sembra incredibile come la cultura contadina sia sopravvissuta a tutto questo, uscendone più forte di prima.
“La diversità tra i vari Lambrusco può diventare l’occasione di un gioco”
“Il nostro racconto deve passare sempre di più per i temi dell’agricoltura, della terra, del rispetto. In un territorio in cui la cooperazione aggrega migliaia e migliaia di vignaioli dovrebbe essere doveroso. Io vedo un futuro fatto di bottiglie Doc e vini sempre più secchi e territoriali, portabandiera di quei valori che l’Emilia ha custodito con caparbietà”. A parlare è Carlo Piccinini, vicepresidente della cantina di Carpi e Sorbara e del Consorzio Marchio Storico dei Lambruschi Modenesi, una delle voci autorevoli della nuova generazione di agricoltori, legati alla terra ma con una precisa idea del mondo e la voglia di portare il lambrusco con successo nei cinque continenti. Un lavoro che apre alla filiera scenari nuovi e grandi opportunità. “Il Lambrusco è un vino contemporaneo, popolare e versatile, tradizionale, ma paradossalmente ancora poco conosciuto. E la diversità tra i vari Lambrusco può diventare l’occasione di un gioco: alle volte faccio assaggiare un Sorbara e svelo solo alla fine che si tratta di un Lambrusco. Inevitabilmente scatta lo stupore e la curiosità di saperne di più - spiega Paolo Trimani, erede di una famiglia che vende vino a Roma dal lontano 1821 - Dobbiamo recuperare la gioia delle cose semplici e sane e per questo vedo molto futuro per questo vino. Un unico messaggio ai produttori: imbottigliate vini sempre più secchi, sono più sani ed esprimono meglio i valori di territorio!”.
Identità nella diversità
Se la diversità, come è chiaro, è un valore, dobbiamo affrontare il discorso del Lambrusco senza la paura di raccontarla, ma schivando la banalizzazione di un racconto troppo semplice e appiattito genericamente sull’idea di rossi frizzanti. I Lambrusco infatti sono decine, tutti figli di quella domesticazione della vite che è avvenuta nei suoli fradici della Pianura Padana ancora non bonificata. È un altro valore di questa famiglia di vitigni, sono nati qui, con la gente che ancora li alleva e ne vinifica le uve. Le alberate che si vedono nelle fotografie di inizio Novecento non ci sono più, ma resta il carattere sempre frizzante che è la cifra di questo vino. Le uve, vendemmiate tardi a causa anche delle enormi quantità prodotte, spesso alla fine di ottobre, fermentavano a fatica a causa del freddo e la fermentazione a un certo punto quasi si fermava per riprendere con il caldo della primavera avanzata. A quel punto i vini, ancora spumeggianti, venivano venduti ancora in fermentazione. E così l’avvento della bottiglia, ha dato ordine a un’identità che era già radicata e codificata. Ecco il viaggio!
Le 6 tappe
1. Lambrusco di Sorbara Doc
Il Sorbara è un lambrusco diverso da tutti gli altri e ha una precisa identità: è scarico di colore, ha profumi austeri che ricordano la viola e la rosa, è ricco di acidità, ed è elegante nella incredibile sapidità della bocca. La storia di questa famiglia di vitigni è diversa da tutte le altre e tra tutti i Lambrusco il Sorbara è forse quello più vicino alla vite selvatica. Limitandosi a deduzioni di carattere esclusivamente organolettico, sembra che il Sorbara (più acido e aggressivo al palato, con colore rosso poco intenso, con aromi riconducibili principalmente alla viola e alla rosa, accompagnati da ciliegia e mirtillo) abbia conservato maggiori caratteri della vite selvatica originale rispetto agli altri. È una varietà molto vigorosa, con portamento eretto ed espanso della vegetazione, perciò adattabile alle forme di allevamento espanse tradizionali o a forme a spalliera e a doppia cortina; problemi di fertilità delle gemme basali ne compromettono la produttività con potature corte. In purezza si ottengono vini di colore poco intenso caratterizzati da modesta componente tannica, a volte aggressiva, abbinata ad acidità elevata. L’aroma è caratterizzato da note floreali di rosa e viola, accompagnate da una componente fruttata dominata da piccoli frutti (mirtillo rosso e nero) e ciliegia. Si adatta particolarmente alla produzione di spumanti col metodo classico o ancestrale. A oggi sono disponibili 4 cloni certificati. La sua attitudine alla rifermentazione in bottiglia ne fa uno dei protagonisti della tradizione. Sorbara, frazione del comune di Bomporto, dista 14 km da Modena ed è incuneata tra i fiumi Secchia e Panaro. Il terreno compreso nella zona classica è formato dalle alluvioni dei due fiumi, specie del primo, ed è a fondo prevalentemente sabbioso, permeabile, ricco di potassa. Nei terreni argillosi questo vino assume un colore più carico che si discosta da quello tipico presentando inoltre al palato un’asprezza più elevata del consueto. Si parla di terroir, con precisione, forse per la prima volta nel mondo del vino italiano.
2. Lambrusco Grasparossa di Castelvetro Doc
“Non ci sono mai state qui delle vigne fatte tutte da un solo vitigno, figurati da un solo clone! Questa è una follia dei nostri tempi. Io continuo per la strada che ho imparato da mio padre e da mio nonno”. Non è facile dimenticare queste parole di Vittorio Graziano, pronunciate anni fa un pomeriggio mentre si camminava nelle sue vigne. Nelle colline emiliane le vigne di lambrusco sono sempre state così, con un protagonista, ad esempio il grasparossa, e una varietà di altri vitigni a fargli da spalla. C’era sempre la barbera ad esempio, preziosa per le acidità che rinfrescavano le annate più calde, e c’era l’ancellotta, una garanzia per il colore. Una varietà che regalava al vino complessità e capacità di adattarsi all’annata. Una saggezza contadina che per fortuna è ancora nel patrimonio culturale di questa terra. A Vittorio Graziano e alla sua esperienza dobbiamo una citazione, perché ci è servita e ci serve a ragionare sullo stile e sull’identità.
Il Grasparossa è il Lambrusco della collina e mai, anche nei documenti storici, ci sono riferimenti alla sua presenza in pianura. È adatto ai terreni poveri e la sua moderata vigoria si adatta bene a condizioni più difficili. Deve il suo nome al colore dei piccioli delle foglie e dei raspi, anche se oggi diversi cloni non hanno questa caratteristica.
È un Lambrusco di grande carattere che ha nella forza dei suoi tannini la sua caratteristica principale. Il frutto è austero e le produzioni più interessanti trovano oggi il coraggio di piccole riduzioni che aggiungono complessità al vino. La sfida di questo lambrusco “di collina” è oggi quella di recuperare il difficile patrimonio di identità che gli anni ’70 hanno cancellato con un’idea enologica allora considerata rassicurante. Anno dopo anno le produzioni stanno ritrovando carattere, tannini, austerità e bocche asciutte.
3. Lambrusco Salamino di Santa Croce Doc
Santa Croce di Carpi è una piccola frazione alle porte di Carpi, a poca distanza dal fiume Secchia. Siamo nella pianura modenese, al confine con il territorio reggiano, qui così vicino che alcune parrocchie della diocesi di Carpi sono in provincia di Reggio Emilia. La pianura è il regno del salamino, il vitigno che regala il nome alla doc. Per parlare del Salamino di Santa Croce occorre partire da qui, dal suo paesaggio, da una pianura segnata da argini e canali, da campanili e grandi alberi solitari. Il paesaggio qui è cambiato parecchio, soprattutto con la scomparsa delle famose piantate che reggevano i festoni formati dalle liane della vite. Poi è arrivato il Bellussi, il sistema a raggi molto diffuso nel modenese che lascia sfogare la pianta e che ancora ha accaniti estimatori. In ultimo, e siamo ai giorni nostri, gli impianti moderni. Per capire la storia di questo territorio e della incredibile diffusione della vite occorre parlare delle sue cantine cooperative, le prime nate in Italia. La Cantina di Carpi, fondata nel 1903, è la più vecchia cantina cooperativa italiana ancora in attività se si escludono le cantine altoatesine che furono fondate quando l’Alto Adige era ancora austriaco. Agli inizi del 1900 la minaccia di una crisi vinicola turbava l’animo di tutti i viticoltori. A Carpi, il dottore Alfredo Molinari, per far fronte a tutto ciò, propone l’istituzione di una Società Civile, che insieme alla Cooperazione di alcuni viticoltori avrebbe permesso la completa solidarietà fra gli associati, responsabilità illimitata di fronte a terzi, garanzia di affidamento. Nasce così la Cantina Sociale di Carpi. Siamo agli albori dell’agricoltura moderna. Conclusa la prima guerra mondiale, nel 1918, la cantina diventa una cooperativa. Un ruolo importante in quegli anni fu quello di Gino Friedmann, che nel 1913 fu promotore della Cantina Sociale Cooperativa di Nonantola, costituita a Modena il 18 maggio dello stesso anno. Ma torniamo al Salamino. È il più “educato” dei Lambrusco, resta equilibrato anche nei terreni grassi della pianura che si allontana da Secchia e Panaro, sempre suadente nei tannini, elegante e austero nel frutto. È forse meno ancestrale di altri Lambrusco, e l’equilibrio complessivo che regala ai vini è la firma di questa caratteristica. Si adatta anche ai terreni più sciolti del territorio di Sorbara, dove viene piantato per fare da impollinatore a quel vitigno meraviglioso e difficile che è il sorbara. Il grappolo è piccolo e compatto e somiglia a un piccolo salame, caratteristica che gli ha regalato questo originale nome.
4. Reggiano Doc Lambrusco
I paesaggi della pianura reggiana hanno un loro linguaggio, una poesia malinconica da scovare lungo strade che sembrano tutte uguali e attraversano paesi e ponti in quantità. Ogni tanto si incontra una bicicletta che sembra ferma, ma spesso si viaggia da soli dentro le fitte nebbie invernali, o nelle giornate arroventate dei mesi più caldi, con gli unici riferimenti dei pioppi degli argini e dei campanili. Sono terre che nascondono queste, a cominciare dai riti collettivi dell’ammazzamento del maiale o della vendemmia. Nascondono tutto e uno s’immagina delle ricchezze nascoste in ogni dove, che poi a cercarle forse si trovano anche.
Il Lambrusco Reggiano è cultura e identità, ma soprattutto è il simbolo di una comunità. Il vitigno principe di questa doc è il Lambrusco Salamino, elegante ed equilibrato nei tannini anche quando si confronta con le generose produzioni di pianura. In realtà, da disciplinare sono ammessi tanti altri Lambrusco: il Marani, il Montericco, il Maestri, quello di Sorbara, il Grasparossa e il Viadanese, l’Oliva e il Barghi; ma i vini a prevalenza Salamino sono sempre i più convincenti.
5. Colli di Scandiano e Canossa Doc Lambrusco
A sancire la diversità del territorio collinare, dove domina il Lambrusco Grasparossa, da quello di pianura dove il Salamino esprime una grande eleganza e ottima carnosità di frutto, ci pensa una doc poco conosciuta, ma importante. Si chiama Colli di Scandiano e Canossa e ha nella tipologia Grasparossa il suo punto di forza. Le colline che si alzano dietro la via Emilia (in provincia di Reggio Emilia) hanno terreni interessanti e variegati, che passano dalle argille della prima quinta collinare ai terreni poveri e sciolti delle colline più alte. Siamo nel cuore delle famose Terre Matildiche che Matilde di Canossa difese con un sistema di castelli che comprendeva quelli di Pianello, Rossena, Canossa, Sarzano e Carpineti. Esiste una versione della doc che prevede l’uso di uve grasparossa in purezza, ma le espressioni più tipiche sono quelle che mescolano Lambrusco diversi e uve tradizionali come sgavetta e ancellotta.
6. Modena Doc Lambrusco secco
Il Modena è la Doc più generica di quella che è considerata la capitale del lambrusco. È una denominazione che permette il blend di diversi vitigni, forse più adatta a un racconto di marchio, e dunque di stile aziendale, che a uno di territorio. In questa tipologia ci sono vini molto diversi tra loro, a volte scuri e a volte addirittura rosati. Il Modena racconta l’autore come protagonista e solo in seconda battuta la grande vocazione del territorio.
a cura di Giorgio Melandri
foto del Consorzio Tutela del Lambrusco di Modena
QUESTO è NULLA...
Nel mensile di agosto del Gambero Rosso trovate l'articolo completo di box, con la mappa delle zone prese in esame, gli interventi di Francesco Cioria (Sommelier al San Domenico di Imola), Claudio Biondi (Presidente Consorzio di Modena) e Davide Frascari (Presidente Consorzio di Reggio Emilia) e 7 piatti scelti da Gianni D’Amato del Caffè Arti e Mestieri di Reggio Emilia per 7 Lambrusco selezionati dalla sommelier Fulvia. E ancora, trovate le 18 insegne dove mangiare nel territorio del Lambrusco, con mappa annessa.
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