Negli ultimi anni i vini pregiati, quelli di superlusso, oltre a essere l’ossessione dei degustatori professionisti, sono diventati per molti un bene rifugio sicuro e sempre più attraente. Secondo il Knight Frank Luxury Index, questi beni sono cresciuti in valore di un notevole 147% negli ultimi dieci anni, con rendimenti medi stimati del 10,46% all'anno per gli ultimi 3 anni. Ne abbiamo parlato con Gabriele Gorelli, primo Master of wine italiano e brand ambassador di Oeno, il gruppo leader nel settore degli investimenti del fine wine.
Possiamo affermare che oggi i fine wine sono un lusso per pochi?
Io credo che si debba fare un passo indietro e pensare a cosa riuscivamo a bere anche meno di 10 anni fa: quello che allora potevi acquistare a 100 euro, oggi lo si compra sette volte tanto. Diciamo, quindi, che si tratta di una nicchia che è cresciuta in maniera verticale. Inoltre, oggi, certi vini neanche li trovi più in commercio, se non rivolgendoti al mercato secondario, con i relativi incrementi del costo.
Il motivo?
Principalmente perché sono cambiate le logiche di mercato e le strategie del valore. E poi, il fatto di essere diventato un settore elitario dipende principalmente dalla scarsità del prodotto. Meno sono le bottiglie sul mercato, più cresce il valore e, quindi, il prezzo. È un cane che si morde la coda e che è caratterizzata da una filiera allungata.
Come si colloca oggi l’Italia in questo mercato?
Decisamente in crescita. Fino al 1986 (anno dello scandalo del metanolo) c’erano pochissimi vini con una continuità stilistica e qualitativa. Poi le cose sono cambiate, sebbene, a oggi, bisogna ammettere che non esiste ancora nel nostro Paese quella tradizione protratta nel tempo che ci permette di annoverare i nostri produttori nel cosiddetto establishment dei fine wine. Questa, però, è anche un’opportunità, perché ci colloca in una posizione di grande fermento. E poi, l’indice Liv-ex ci dice che l’Italia è il terzo Paese più “scambiato”, dopo Bordeaux e Borgogna.
E quali sono le denominazioni italiane che sono riuscite, in questi 30 anni, a conquistare lo status di fine wine?
C’è un’assoluta predominanza della Toscana con più del 50% delle quote. Questo soprattutto per merito dei Supertuscan che nel tempo hanno saputo dimostrare tutta la loro modernità, a cui si aggiungono anche alcune etichette di Brunello e Chianti Classico. A seguire, per circa il 40% del mercato, c’è il Piemonte con i suoi Barolo e meno del 10% è appannaggio delle altre regioni. Si capisce come sia un percorso lungo che sta premiando chi aveva iniziato a intraprendere questa strada per primo.
Tra chi scommette sull’Italia, c’è anche Oeno Group, di cui sei brand ambassador...
Oeno Group nasce con un forte focus sul nostro Paese e oggi può contare su oltre 200 investitori italiani. La sua forza è che funziona per pacchetti di investimenti, “confezionati” ad hoc sui gusti del cliente, garantendo la consulenza e l’intermediazione necessarie per acquisire bottiglie rare e dal valore destinato a crescere. Oeno, infatti, è come una diga lungo il fiume dei fine wine: non ferma il corso, ma accumula i vini migliori, rilasciandone solo alcuni. Tante le soluzioni a disposizione che si rivolgono al ristorante di alta fascia, così come all’appassionato di vino, passando per l’esperto collezionista. Nell’ottica dell’investimento, una volta acquistato un prodotto lo si tiene là, aspettando che aumenti il valore. A quel punto si può decidere di rilasciarlo sul mercato o di riscattarlo, con il vantaggio di avere un costo per il magazzino fiscale (iva e duty) conteggiato sul prezzo iniziale di acquisto. Ma c’è anche una terza opzione.
Ovvero?
Una novità assoluta nel panorama dei fine wine e che risponde al nome di Oeno House al London Exchange: una wine boutique, nel cuore della City, dove si possono bere i migliori vini al mondo. In questo caso, l’investitore decide di vendere il proprio vino direttamente a chi lo consumerà e non al mercato dei collezionisti. L’avventore di questa enoteca è, infatti, un consumatore alto spendente che vuole comprare quel vino (e non un intero pacchetto di vini) per propria fruizione. Parliamo di bottiglie, ma anche di proposte al calice.
Non c’è il rischio che i fine wine, visti i loro costi, diventino un lusso da signori, allontanando i più giovani, già distratti da altri prodotti?
No, soprattutto in ottica di investimento e relativamente a un pubblico meno esperto di vini pregiati che, però, desidera ampliare le proprie prospettive di guadagno, diversificando il rischio del proprio portfolio. È un investimento molto lineare. Per gli appassionati, invece, si tratta di vini che avrebbero comunque messo in cantina. In questo modo hanno l’opportunità di scegliere se berlo o farlo fruttare.
a cura di Loredana Sottile