Che l'Italia abbia un problema di surplus di vino rispetto al trend discendente dei consumi a livello globale è assodato. Su come gestirlo, però, ci sono molti dubbi e il mondo produttivo appare più che mai diviso. La Francia, che per prima ha proposto la strada degli espianti, ha presentato un piano dettagliato per affrontare il problema e recentemente ha lanciato un sondaggio - online fino al 12 giugno - per raccogliere i pareri di migliaia di viticoltori interessati alla misura. L'Italia brancola ancora nel buio. Per capire a che punto è l'umore delle imprese, il settimanale Tre Bicchieri ha interpellato alcune aziende italiane, a conduzione privata (dopo aver sentito nelle precedenti settimane le cooperative), raccogliendo pareri molto differenziati, a testimonianza di quanto l'argomento estirpazione dei vigneti sia sentito e delicato, ma altrettanto divisivo e scottante per la filiera nazionale. Per alcune l'ipotesi è tra le strade percorribili, sul modello francese, mentre per altre rappresenta un'estrema ratio. Decisamente contrarie, invece, le piccole cantine a conduzione familiare. Sullo sfondo, il piano presentato in Europa da Copa-Cogeca che prevede un espianto a tempo, con 8 anni per decidere se tornare a impiantare vigneti o dedicarsi ad altro.
Le alternative all'espianto
Da Fantini group ad Argea, passando per Zonin1821 e Bersano Vini, le imprese coinvolte hanno una storica vocazione alle esportazioni e in alcuni casi, oltre ai vigneti di proprietà, gestiscono terreni in affitto e con produzioni sono altamente diversificate, per tipologia e per canali distributivi. Una parte delle imprese ritiene necessaria la misura soprattutto nelle aree vitivinicole dove la crisi è evidente, secondo un approccio pragmatico e di taglio manageriale (nella logica del rapporto costi/benefici), ma allo stesso tempo ci sono società nettamente contrarie all'estirpazione dei vigneti e che vedono questa misura come una soluzione da utilizzare solo in casi estremi, che va legata a una precisa strategia di lungo periodo. In questo quadro, resta aperta la questione dell'efficacia delle strategie di promozione dei vini italiani all'estero e della capacità di incontrare i gusti delle nuove generazioni di consumatori. Diverse imprese intravedono come alternativa all'estirpo la riduzione delle rese per ettaro, misura che l'Italia ha adottato nel periodo Covid, coinvolgendo numerosi Consorzi di tutela, e intervenendo anche su quelle dei vini generici nel Testo unico del vino (taglio da 500 a 300 quintali/ettaro), ma con una quantità tale di deroghe territoriali da rendere quasi inefficace il provvedimento per limitare i volumi.
Feudi invita a intervenire solo in alcune aree
La posizione di Feudi San Gregorio, gruppo irpino da oltre 170 ettari con 3,5 milioni di bottiglie e 28 milioni di euro di ricavi, è chiara: «Alla luce del cambiamento climatico in atto, ci sono certamente delle aree in Italia dove fare viticoltura sta diventando difficile e sicuramente poco sostenibile, i viticoltori ne sono consapevoli e hanno ben chiaro che devono immaginare alternative - spiega a Tre Bicchieri Pierpaolo Sirch, responsabile di produzione - e una tale misura potrebbe essere ulteriore incentivo al cambiamento». Come alternativa per il controllo dei volumi, la società della famiglia Capaldo intravede la riduzione delle rese di uva per ettaro «nelle aree e con varietà dove ancora oggi si fanno produzioni spinte». Le strategie intraprese da diversi anni dal gruppo Feudi, alla luce dei cambiamenti di mercato sono, pertanto, collegate a vini dal «profilo fine, verticali ed eleganti - spiega Sirch - in cui le gradazioni alcoliche non siano eccessive e gli equilibri acidi conferiscano freschezza». Caratteristiche ottenute anche scegliendo vigneti in aree a maggiore altitudine: esigenza particolarmente sentita anche in altri territori, a partire dalla Sicilia e, in particolare, dall'Etna.
Fantini Group: ok all'espianto a tempo ma non basta
«Sì all'estirpo a tempo» per Fantini group, realtà abruzzese da 26 milioni di bottiglie prodotte tra i 30 ettari di proprietà e gli oltre 7mila da cui provengono le uve che danno vita ai vini Fantini: «Siamo d’accordo - spiega la responsabile marketing Giulia Sciotti - ma è importante capire come utilizzeremo questo tempo: il tutto avrà un senso solo se saremo in grado di studiare un modo di fare prodotti che riavvicinano i giovani consumatori al vino». Secondo Fantini group, in un contesto di mercato di calo dei consumi, occorre «capire quanto dobbiamo cambiare nel gusto dei vini e nel modo di comunicarli. Senza uno studio di settore tutto questo non è fattibile. Di certo - sottolinea - questa situazione ci ha fatto capire che il pur generoso aiuto dei fondi Ocm promozione è stato utilizzato male e non ha portato i frutti desiderati». Tra gli errori che pesano su una certa disaffezione dei consumatori al settore anche la comunicazione sul vino naturale: «Oltre a essere fuorviante e scorretta, ha portato i consumatori da un lato a ritenere erroneamente "non naturali" gli altri vini e dall’altro a trovarsi davanti questi vini (pseudo naturali) con un bello storytelling ma con un gusto molto difettato e alterato».
Zonin1821 non esclude operazioni di dismissione
Il gruppo Zonin1821 (1.500 ettari e ricavi 2023 oltre 193 mln di euro) invita a guardare il problema nel suo insieme: «Non esiste una risposta univocamente corretta che non sia ancorata nella visione strategica a medio-lungo termine di ogni singola azienda. In questo momento - afferma a Tre Bicchieri il ceo Pietro Mattioni - la possibilità di estirpare vigneti è potenzialmente utile per talune aziende, ma deve inserirsi in un progetto più generale di ripensamento e ridefinizione, a medio-lungo termine, del business e della propria complessità così da continuare a operare, crescere e garantire benessere». Ma se, a livello globale, il rallentamento dei consumi dovesse essere strutturale, secondo Mattioni occorrerà cambiare strategia: «Sarà necessario riallineare la domanda con l’offerta andando a pianificare in modo strategico operazioni di espianto, cominciando a identificare vini/varietali sui quali è presente la maggiore disparità. In caso contrario - sottolinea il manager - un eccesso sistemico di offerta abbasserebbe i prezzi al di sotto della soglia di costo, danneggiando l’intero comparto». Per questo motivo, l'estirpazione dei vigneti va considerata come una alternativa valida. Per Zonin1821, il ripensamento strategico è «fondamentale» per l’evoluzione del business: «Non dobbiamo più lasciarci scandalizzare non solo dal tema dell’estirpazione dei vigneti, ma anche da altri temi come la ridefinizione dei portfoli (vendite ma anche acquisizioni) o l’ingresso di fondi di investimento nelle aziende, fusioni tra aziende complementari e strutturazione di Gruppi o conglomerati. Per quanto ci riguarda, in un’ottica di crescita a livello globale - annuncia Mattioni - non stiamo escludendo alcune operazioni strategiche di dismissione, ma siamo ben consapevoli del patrimonio rappresentato dalle nostre Tenute, dalla cultura millenaria che custodiscono e dalla priorità rappresentata dalla continuità del business per noi e per le comunità dove operiamo».
Misura solo da ultima spiaggia, secondo Argea
Una cartina al tornasole sull'ipotesi espianto in Italia viene da Argea, gruppo fortemente orientato all'export che gestisce 120 ettari (di cui 70 in affitto), con 160 milioni di bottiglie e un giro d'affari da ben 450 milioni di euro. La posizione del gruppo guidato dal ceo Massimo Romani è precisa: «L’estirpo dei vigneti deve essere l’estrema ratio: riteniamo la strada degli espianti finanziati un percorso senza ritorno e non crediamo possa funzionare una misura a tempo». Secondo Argea, si potrebbe iniziare proponendo un «contenimento delle rese» in quelle aree planiziali che oggi soffrono maggiormente di sovrapproduzione e dove i terreni hanno possibilità di essere impiegati in altre coltivazioni. «Andrebbero, invece, salvaguardate - è la posizione di Argea - le zone collinari o pre-montane maggiormente vocate a prodotti di qualità e più esposte al rischio di erosione economica. Vediamo un forte rischio di abbandono dei terreni per la mancanza di alternative colturali economicamente redditizie e quindi di perdita di un tessuto socio-economico e storico-culturale di rilievo, nonché di occasioni di sviluppo legate all’enoturismo». C'è di più, secondo i vertici di Argea, se i fenomeni climatici avversi facessero calare ancora la resa media dei vigneti come nel 2023, non si riuscirebbe a far fronte alla domanda: «E per ricostruire un vigneto sono necessari anni mentre la domanda di mercato chiede risposte immediate». Pertanto, il problema della sovrapproduzione in un contesto di calo generale dei consumi, per Argea (che all'ultimo Vinitaly ha presentato otto etichette di vini dealcolati), si affronta da un lato mettendo in campo, semplificandoli, strumenti di gestione del potenziale produttivo, a partire dalle rese effettive dei vigneti per i vini generici; dall’altro lato, favorendo l’evoluzione di alcune produzioni tradizionali verso i vini maggiormente in linea con l’attuale domanda di mercato: vini più freschi, morbidi e con una bassa (o anche nulla) gradazione alcolica.
I dubbi di Avignonesi
Matteo Giustiniani, amministratore delegato di Avignonesi, ha una posizione critica: «Non credo abbia senso sovvenzionare la ristrutturazione dei vigneti e allo stesso tempo pianificare l'estirpazione di ettari vitati. La viticoltura in certe aree geografiche permette di tutelare il paesaggio, sostenere le comunità locali ed evitare la perdita di un patrimonio culturale. In altre aree - fa notare il manager - può essere una mera speculazione con i relativi danni all'ambiente e all'industria del vino. Difficile quindi generalizzare. Sicuramente, lascerei la risposta agli agricoltori». Il manager della storica azienda di Montepulciano, che gestisce 170 ettari di vigneti con una forte vocazione alla sostenibilità (dal 2019 è società benefit), sul problema degli eccessi produttivi suggerisce l'uso dell'uva per vini dealcolati e/o sottoprodotti, ma «a patto che i benefici per l'ambiente e la società superino quelli negativi. Nel secondo caso, meglio estirpare e non guardare ai cosiddetti sunk cost, ovvero i costi già sostenuti e che non possono essere recuperati». L'azienda toscana, come alternativa agli espianti, rimarca l'importanza di concentrarsi sul produrre quello che serve: «Un concetto che - secondo Giustiniani - andrebbe applicato a tutta l'agricoltura per evitare squilibri tra domanda e offerta e, soprattutto, sfruttare inutilmente i suoli e le risorse». Altra leva è la comunicazione, nella logica di una promozione della «unicità del vino come trasformato agricolo che può offrire molteplici esperienze: edonistica, culturale, esplorativa». Il futuro di Avignonesi passa dalla produzione di vini che riflettono il territorio, da una viticoltura che cerca di mitigare l'impatto negativo sull'ambiente e sostenere la comunità. Sicuramente, come annuncia Giustiniani, i vini senza alcol si svilupperanno molto in futuro: «Tuttavia non siamo in grado, ad oggi, di produrre vini senza alcol identificabili come prodotti agricoli autentici e di qualità. Il quadro normativo non stimola sperimentazione e ricerca. Stiamo invece valutando lo sviluppo di una policoltura e, quindi, di altre filiere», diverse dal vino.
Dalla Calabria il no di Librandi
Una tra le più importanti cantine calabresi, Librandi vini, che conta 240 ettari di vigne, nel comprensorio della Doc Cirò e Melissa, con 2 milioni di bottiglie prodotte di cui il 50% esportate, è scettica sul tema dell'espianto: «Per quanto riguarda la Calabria, e la nostra zona in particolare, purtroppo si stanno perdendo ettari e rese per ettaro. Quindi - afferma il contitolare Raffaele Librandi - non penso che al momento si ponga il problema. Piuttosto, tra le alternative si potrebbero potenziare le esportazioni e fare una migliore promozione». Di fronte alla sfida climatica, che ha colpito particolarmente il centro sud nel 2023, l'azienda Librandi si sta riorientando dal punto di vista strategico-produttivo: «Ci stiamo strutturando anche noi in modo da tagliare le linee più economiche e spostare la produzione sulle tipologie che al momento si consumano di più, con particolare attenzione alla qualità dei nostri vini».
Sbagliato l'estirpo tout court per Bersano Vini
Adattamento al mercato è la parola d'ordine per Bersano Vini, storica azienda piemontese, con 230 ettari vitati e un fatturato di circa 8 milioni di euro, per il 55% da esportazioni. «In questa fase in cui a un eccesso di produzione si somma il calo dei consumi - spiega il responsabile vitivinicolo Filippo Mobrici - notiamo una contrazione di alcune tipologie come i rossi, a fronte di un buon andamento di bianchi e spumanti. Un tale quadro ci preoccupa ma nel nostro Dna non c'è l'idea di estirpare i vigneti tout court, bensì di estirpare per riconvertire secondo le nuove tendenze del mercato e le nuove esigenze dei consumatori». Il contesto globale, fa notare il manager, chiede prodotti nuovi come, ad esempio, rossi più freschi a base Barbera: «In considerazione di una ridotta stagionalità dei vini rossi bisogna riflettere su una riconversione di parte delle nostre vigne verso prodotti più attuali. La Bersano, in questo senso, ha dei progetti che intende portare avanti, utilizzando uve presenti già in azienda, puntando su varietà regionali. Ma stiamo anche valutando - conclude Mobrici - l'adozione di varietà resistenti, che favoriscano produzioni sostenibili, perché è questo aspetto che risulterà sempre più determinante per i vini del futuro».
Sull'Etna il problema è opposto: frenare la crescita
Cottanera, tra le aziende leader della Doc Etna, ha il problema opposto rispetto all'ipotesi espianto. «La nostra denominazione ha scelto il blocco delle superfici - ricorda il titolare Francesco Cambria - perché nel nostro territorio, che vive un periodo felice di crescita (da 500 a 1.500 ettari in dieci anni), l'esigenza non è tanto quella di eliminare i vigneti ma di incrementarli». La cantina siciliana, che gestisce circa 65 ettari vitati, non sta valutando la misura. «Se, tuttavia, è vero che la Doc Etna non soffre crisi, noi produttori non dobbiamo nasconderci dietro un dito, perché non è detto che non possa interessarci in futuro. Pertanto, accelerare l'aumento delle superfici potrebbe essere un rischio, alla luce di quanto sta accadendo sui mercati mondiali». Detto ciò, per Cambria, la parola estirpazione non è tabù: «Lo stanno facendo a Bordeaux e, quindi, in Italia non ci si deve scandalizzare. Il mercato è complesso, i millennial stanno chiedendo meno vino rispetto a quanto facevano in passato i loro coetanei. Bisogna capire meglio le dinamiche dei consumi».
Per Umani Ronchi occorre preservare le Dop di qualità
L'idea dell'eradicazione dei vigneti a fronte di una crisi di mercato non sfiora i pensieri di Michele Bernetti, alla guida di Umani Ronchi, azienda marchigiana che conta oltre 200 ettari vitati. «La gestione del mercato e del potenziale viticolo di un Paese deve essere un fatto tecnico e molto poco politico, perché se prevale quest'ultimo aspetto si rischia di fare dei danni al mercato. L'estirpazione è una decisione con effetti nel medio-lungo termine e va presa solo in caso di crisi conclamate. Non può essere un fatto temporaneo. A Bordeaux, per esempio, la crisi è conclamata da tanti anni. E se l'Italia vorrà scegliere questa strada ritengo debba impostare un attento discorso legato alla qualità dei vini, a seconda del territorio e del prodotto». Bernetti, in particolare, cita l'anomalia dei vigneti di pianura in cui le rese arrivano a 400 quintali/ettaro: «Teniamo conto di quel tipo di produzioni e salvaguardiamo quelle di alta collina. Nelle Marche, per esempio, ci sono 18mila ettari a Dop, quasi interamente in collina. Estirparli significa penalizzare territori già deboli con denominazioni che potrebbero avere un buon potenziale sui mercati».
Argiolas acquista ettari: espianti non contemplati
Con oltre 250 ettari di vigneti, e altri cinque appena acquistati, Argiolas non contempla l'ipotesi di espiantare. «Anzi - afferma Valentina Argiolas, responsabile marketing della cantina sarda che, nel 2023, ha totalizzato oltre 21 milioni di euro di ricavi - la Sardegna sta ancora pagando lo scotto di ciò che ha estirpato negli anni Settanta. L'estirpazione dei vigneti è un passaggio da cui non puoi tornare indietro e dovrebbe essere considerata un'ultima spiaggia». Le alternative ci sono, secondo Argiolas: «Dove è possibile, sarebbe più intelligente riconvertire i vigneti e applicare strumenti di controllo delle produzioni, orientandole verso una qualità superiore. In Sardegna, non c'è crisi di sovrapproduzione - rimarca - e il cambiamento climatico sta riducendo naturalmente i volumi di vino. Ma l'isola ha potenzialità ancora inespresse, che passano per la creazione di marchi e consorzi unici: un tema questo su cui la filiera regionale sta lavorando. Per questo non siano favorevoli a estirpare, perché una volta perso un patrimonio non lo si recupera».
Per Vigneti Reale allungare i tempi dei diritti di reimpianto
Damiano Reale, che cura l'azienda agricola di famiglia, estesa per oltre 150 ettari vitati, ha le idee chiare sulla gestione delle produzioni nelle campagne pugliesi. «Occorrerebbe, innanzitutto, evitare i nuovi impianti e sospendere quell'1% concesso annualmente dalla legge europea e nazionale. Poi, alla luce dell'avanzamento dell'età dei proprietari di vigneti che, in assenza di ricambio generazionale, finirebbero abbandonati, sarebbe giusto concedere un piccolo premio per l'espianto di superfici vitate non più produttive. Ma soprattutto - rileva Reale - occorrerebbe allungare fino a sei anni il diritto di reimpianto per le imprese del vino. Questo consentirebbe di avere un tempo più lungo per pianificare le proprie strategie commerciali». Vigneti Reale, che opera nell'area della Dop Salice Salentino, ha recentemente espiantato delle vigne, alla luce della nota crisi dei vini rossi: «Aspetteremo qualche anno per esercitare i nostri diritti in portafoglio. Avere più tempo sarebbe molto utile e - annuncia Reale - stiamo valutando se piantare varietà bianche, ma senza esagerare, per non perdere la nostra identità territoriale. Non dimentichiamo che il vigneto è anche una ricchezza sociale».