Le Langhe non sono in vendita. È questo il grido di battaglia che il Consorzio Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani lancia in occasione di Grandi Langhe 2024 (la fiera per la promozione dei vini dell’area, svolta alle Officine Grandi Riparazioni di Torino il 29 e 30 gennaio scorso) con l’intento di alzare una barriera contro l’ingresso di grandi investitori esterni nelle proprietà vitivinicole langarole (mentre si discute la modifica del disciplinare).
Il trauma mai superato
Il primo evento traumatico risale al 2015, quando il magnate americano Kyle Krause acquista la storica azienda Enrico Serafino. L’anno dopo lo stesso Krause avvia un clamoroso investimento su Vietti, altro celebre brand delle Langhe. Qualcuno disse allora che nella zona del Barolo nulla sarebbe stato più come prima. Ma la goccia che fa traboccare il vaso è l’acquisto di due altri marchi langaroli, Josetta Zaffirio e Sara Vezza, da parte del veneto Renzo Rosso, patron dell’azienda di abbigliamento Diesel e presidente del gruppo di moda e lusso OTB, circa un anno fa.
“La Langa - e la zona del Barolo in modo particolare - è diventata l’aspirazione di investitori che provengono soprattutto dal mondo finanziario e che nulla hanno a che vedere con il mondo del vino. Questo fenomeno scardina i principi e le caratteristiche della nostra zona, in particolare la tradizione delle aziende familiari.
Una cosa è se una cantina viene comprata da una cantina più grande, un’altra è se la compra uno che viene dal mondo della finanza e non sa nulla di vino”. Così tuonò allora Matteo Ascheri, titolare di una storica cantina a Bra e presidente del Consorzio Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani (un consorzio che oggi può vantare 568 soci, 10 mila ettari di vigneti e più di 66 milioni di bottiglie su tutte le 9 denominazioni tutelate).
I prezzi alti attirano capitali stranieri
In diversi casi, in effetti, le dinamiche familiari portano le famiglie, in assenza della disponibilità a realizzare i poderosi investimenti necessari per attivare o mantenere l’impresa vitivinicola, a dismettere le vigne di proprietà. Tuttavia, pur godendo di un diritto di prelazione sull’acquisto, la gran parte dei viticoltori vicini dei potenziali venditori non sono in grado di acquistare: la valutazione di un ettaro di barolo tocca ormai i 4 milioni di euro. Cifre da capogiro che rischiano di rendere i produttori delle Langhe vittime del loro stesso successo.
Così, nel tentativo di correre ai ripari e fermare per tempo l’onda, l’anno scorso proprio il consorzio, per iniziativa del presidente, commissiona all’Università Cattolica di Milano una indagine psico-sociologica sull’opinione dei viticoltori di Langa sull’arrivo degli investitori ‘esterni’.
Le Langhe dallo psicologo, si potrebbe dire, per scoprire (quasi) l’acqua calda: secondo la ricerca, presentata a Torino lunedì 29 gennaio all'interno di Grandi Langhe, nel quadro dell’iniziativa “Langhe (not) for sale, l’identità e il valore della comunità”, l’idealizzazione delle Langhe come territorio unico e inimitabile, l’attaccamento alla terra e ai valori tradizionali del mondo contadino, la forte responsabilità verso la conduzione delle proprie imprese familiari rappresentano l’impronta comune e distintiva di tutti i produttori vitivinicoli dell’area. Come a dire, le Langhe sono il posto migliore del mondo, guai a chi ce le tocca.
La dicotomia tra vecchie e nuove generazioni
Tuttavia, l’indagine offre pure qualche significativa differenza nell’approccio generazionale alla questione. I produttori vitivinicoli senior hanno una visione monolitica degli investitori “esterni” e ne colgono soprattutto gli aspetti speculativi e di rischio per il territorio. Per loro vendere le vigne è quasi un trauma esistenziale che tocca direttamente il sé, a causa di un attaccamento alla terra di natura addirittura personale.
I produttori più giovani mostrano invece un approccio comunitario ma aperto: la presenza di investitori esterni non è solo un rischio, ma può diventare un’opportunità e l’eventuale vendita di vigneti da parte di famiglie storiche del territorio, più che un dramma personale, risulta semmai una potenziale criticità per la dimensione comunitaria e identitaria del territorio.
“Fa piacere scoprire che i giovani produttori non vogliono vendere”, dice Ascheri, ma il problema è che, ammette, “noi non abbiamo soluzioni per impedire la vendita o limitare l’ingresso di capitali finanziari esterni. Per questo dico ai nostri viticoltori: non rompete il giocattolo”.
L’appello disperato del Consorzio
Qualcuno potrebbe dire: È il mercato, bellezza! La sensazione insomma è che l’iniziativa consortile serva soprattutto a lanciare l’allarme e a condividerlo con i produttori delle Langhe, pregandoli di riflettere mille volte prima di procedere alla dismissione delle proprie vigne a vantaggio di investitori esterni con il rischio di snaturare l’identità del territorio.
“È proprio così” riconosce Ascheri “serviva capire se si tratta di una mia fisima o se è un sentiment condiviso da parte della collettività. Il territorio è fatto anche di uomini: gli stessi turisti che vengono qui cercano questa autenticità contadina. E poi si tratta di tutelare il valore economico del nostro brand evitando il rischio di omologazione: le Langhe sono un territorio unico e irripetibile, diverso da tutti gli altri che rischiano di assomigliarsi sempre di più. Un certo mondo ci vede come terra di conquista, ma noi non siamo in vendita. Non vogliamo diventare come gli indiani nelle riserve. Noi siamo un’eccezione come Gigi Riva: tutti vorremmo essere come lui”.
C’è un’altra sfida, però. In generale, la dimensione di scala delle aziende italiane, sia in generale che nel mondo vitivinicolo, è troppo ridotta per reggere la sfida del mercato globale. “È vero” ammette di nuovo il presidente del Consorzio “ma il nostro obiettivo, infatti, non deve essere quello di vendere di più ma quello di vendere meglio: così facendo si riesce a gareggiare anche nelle economie di scala, altrimenti alla lunga si scompare”.