Entrare nella vallata di Canneto Pavese circondata dalle vigne, in Oltrepò, è come immergersi in una Val d’Orcia meno pettinata, meno patinata, dove l’agricoltura è nella sua dimensione agricola, appunto, fuori da ogni cartolina. Una zona poco conosciuta e poco battuta che – a detta di molti – esploderà presto come terreno da investimento e come buen retiro per stranieri a caccia di angoli lontani dal flusso di massa. Andrea Picchioni conosce palmo a palmo ogni vigna, ogni costa di questa zona dove nasce il Buttafuoco, rosso potente – come lascia intendere il nome stesso – che però sempre più cerca eleganza e bevibilità.
Buttafuoco freddo, da bere a 12 gradi
Assaggiare con Andrea i suoi vini freddi, fa una certa impressione. Un contadino, un vignaiolo come lui, rossista nell’animo, che ti propone i suoi calici – la sua vita, la sua passione – a temperature per molti proibitive, fa un certo effetto. Appena li porti al naso e poi al palato, però, capisci il senso di quella che può apparire una provocazione, ma che in realtà è piacere vero: eleganza, profumi, bevibilità. In vini che se li prendi a temperatura “ambiente” (fuori saranno sui 37 gradi all’ombra) sarebbero solo alcol e pesantezza.
Comincia così l’incontro con Picchioni, l’erede – come molti lo definiscono, anche se lui rispetto a questa cosa si schermisce – di Lino Maga e del suo Barbacarlo, vino che sui siti online viene definito “vino autunnale”, blend di Croatina, Uva Rara e Ughetta dalle colline della vicina Broni da bere – consigliano tutti online – tra i 18 e i 20 gradi. Noi i vini di Picchioni li abbiamo degustati a 12 gradi e potremmo tranquillamente (e paradossalmente) chiamarli vini estivi. «In estate abbiamo voglia di cose fresche. Un vino che sta a 16 gradi, in estate, in un attimo arriva a 20… Se lo metti a 12, lo bevi a 14-15. Cambia completamente la beva del vino, la sua piacevolezza. Anche questo è un elemento di eleganza per il vino. Come per il caffè: se un buon caffè lo bevi troppo caldo o troppo freddo non va bene…», ci spiega lui.
Noi, incuriositi e affascinati, decidiamo di cominciare a fargli domande per capire cosa leghi questo uomo alla terra, cosa sia per lui il vino, come riesce a perseguire eleganza e nervo in questi rossi potenzialmente "troppo" potenti, cosa pensa - lui vignaiolo - del movimento dei naturali e come si pone lui, contadino che rifugge da ogni moda o tendenza...
Abbiamo citato Lino Maga: qual è l’eredità di uno dei padri della viticoltura eroica e “artigianale” in Oltrepò?
La sua filosofia – ovvero che il vino parte dalla vigna – è anche la mia. La vigna è almeno il 70% di un vino. Anche se ormai...
Ormai cosa?
Ormai il vino lo si fa ovunque. Pianti in pianura e tiri fuori vino perfetto! Si fa per dire (e sorride)
Ecco, cosa è il vino?
Il vino è una cosa seria, diceva Lino Maga. Ma è serio a 360 gradi. Oggi il vino lo vediamo come una soluzione idroalcolica, mentre è storia, cultura, socialità, rapporti umani: questo è ciò che gira intorno al vino. Probabilmente, molti di noi avranno – giusto per fare un esempio – corteggiato una ragazza o un ragazzo parlando anche di vino. Questo perché il vino non è “una bevanda”, o non solo. C’è dietro e intorno tanta roba che – sempre per stare sugli esempi – non ci sono intorno alla birra, con tutto il rispetto per la birra. Il vino fa parte da millenni della nostra storia e della nostra vita.
Cosa significa in concreto partire dalla vigna?
Per me vuol dire innanzitutto superare l’appiattimento che c’è stato sul vino negli ultimi 50 anni: prima si piantava solo in aree vocate, oggi si pianta ovunque. La vigna non è semplicemente un campo di viti, ma è un organismo vivente che cambia a seconda di dove vive.
E questo cosa comporta in concreto?
Beh, avere la vigna in una zona vocata, un tempo significava portare a casa uva da cui potevi avere del vino buono. Prima di Pasteur, la gente faceva il vino perché lo facevano i padri e i nonni: si faceva tutto a mano, non si usavano concimi o chimica, non si sapeva il perché dei processi evolutivi e fermentativi. In una annata come questa, ai tempi prima di Pasteur, o avevi la vigna in una zona vocata o non avevi uva. Non solo: se non avevi uva buona, non facevi vino bensì aceto. Sono cose di cui ci siamo tutti dimenticati, come ci siamo dimenticati del lavoro del sarto perché compriamo tutto già confezionato. La vigna sta al vino come la manualità all’artigiano.
Cosa pensa rispetto al fenomeno (o movimento) dei vini naturali?
Non ne parlo, perché sono di moda e io non voglio parlare delle mode. Li rispetto e li ammiro anche, ma finché non verranno disciplinati in modo chiaro, è come parlare di streghe e fattucchiere. Io poi, penso - anche se non lo dico - di fare un vino naturale. Uso letame maturato, rame e zolfo, olio di arancio curativo e basta. Potrei definirmi naturale. Ma oggi non ne voglio proprio parlare. Un po’ come per il biologico: io sono bio certificato, ma sul vino non lo metto perché ormai è una moda. Sono un po’ un no-logo.
Tra i dieci ettari di vigna di Picchioni, c’è anche una parte del vigneto dove nacque il Buttafuoco.
Sì, questa è una sottozona dell’Oltrepò. La vigna storica in parte è mia e in parte è di Franco Pellegrini. Le mie vigne sono tutte qui intorno, tra Canneto e Stradella. Ce ne sono alcune che hanno pendenze anche di 45 gradi.
Ecco, Oltrepò: cosa pensa dei contrasti e delle ridefinizioni interne al Consorzio tra piccoli produttori e imbottigliatori?
Io, ovviamente, sto con i piccoli produttori. Ma adesso anche il Consorzio si sta spostando verso le aziende agricole. Allo stesso, tempo, però credo che gli imbottigliatori siano indispensabili al territorio, anche se giocano un altro campionato. E meno male che ci sono gli imbottigliatori: se la cantina sociale pigia un sacco di uva e non ha lo sbocco della bottiglia, deve vendere il vino agli imbottigliatori. A meno che non fa una svolta, non trova strade diverse come per esempio in Alto Adige, altrimenti è difficile.
Picchioni, quale futuro per il vino?
Oggi il vino è demonizzato. Se ci ricordiamo gli anni 80, il vino era per gli alcolizzati. Credo che andremo sempre più verso il vino di nicchia, ma bisogna stare attenti a non andare verso il vino da loculo!
Che sarebbe?
La morte del vino. Attenzione a non farlo essere troppo esclusivo, troppo di nicchia. Io credo che anche gli imbottigliatori dovranno rivedere molte cose. Oggi in Italia cominciamo ad assumere il punto di vista che avevano già oltre venti anni fa nel mondo anglosassone, in Usa e in Inghilterra: per noi la bottiglia è stata sempre un fatto quotidiano, per loro era più un prodotto finalizzato all’evento. Credo dobbiamo entrare nell’ottica che la bottiglia sia per un evento. Poi, credo anche che ci sia mercato per tutti. La globalizzazione amplia tutte le potenzialità e sono in tanti ad avvicinarsi al vino solo adesso: non tutti possono permettersi bottiglie di qualità, a livello economico ma anche a livello di conoscenza.
Lungo il sentiero che costeggia i vigneti e si inoltra nel bosco, appare una vigna appena impiantata. Andrea ce la indica: Trebbiano. E per far cosa?
Un vino bianco! – sorride – Poi vedremo cosa esce fuori. Una cosa tipo il Verdicchio Campo delle Oche, che lo metti in vasca e lo lasci per anni… Ha presente i vini di Gini, il suo Soave? Ecco, io li amo.
Perché?
Perché son buonissimi, vini di vigna, non temono le ingiurie degli anni e non son figli dell’industria.
Luigi Tecce, a proposito dei Naturali, ci ha detto che i vini puzzano se puzza chi li fa... Cosa pensa Picchioni?
Giusto!