Lombardo di origini calabresi, cittadino del mondo, dal 2021 Simone Cantafio è lo chef de La Stüa de Michil. La sua storia comincia in Italia, prima con Carlo Cracco ai tempi di Baronetto, Zaccardi & Co, e poi Gualtiero Marchesi di cui è uno degli ultimi allievi. Poi parte: più di 10 anni in giro per il mondo, 6 in Francia, alla corte di George Blanc e poi con Michel e Sébastien Bras che l'hanno poi portato in Giappone (dove si è fermato 5 anni), nell'isola di Hokkaido, affidandogli il loro ristorante; a chi gli chiedeva perché uno chef italiano alla guida di un ristorante francese nel Sol Levante, Michel Bras rispondeva: «perché cucina più con il cuore che con la testa» e aggiungeva che è l'impronta italiana, una sensibilità da non perdere.
All'alba dell'apertura di un nuovo ristorante, stavolta vicino Tokyo, Simone viene in Italia, doveva fermarsi per poco ma rimane bloccato dalla pandemia in Calabria, nel paese della sua famiglia dove andava da ragazzo in vacanza. Impiega quel tempo sospeso per conoscere la regione e i suoi frutti, i migliori artigiani che li producono. Il mondo si ferma ancora e ancora, e così Simone, che alla fine decide di rimanere in Italia. Oggi lo si trova in Alta Badia, all'hotel La Perla di Corvara, dove c'è anche un ristorante nel ristorante: Incö, che in ladino significa oggi. Un solo tavolo che si inventa giorno dopo giorno: al momento della prenotazione (da fare almeno un giorno in anticipo rispetto alla cena) Cantafio comincia la ricerca delle materie prime, «chiamo tutti i miei contatti da nord a sud, per capire cosa hanno di top che possono mandarmi in 24 ore».
La mattina seguente c'è un briefing con i collaboratori per definire il menu in base a quel che ha trovato, costruito all'impronta per la cena che si svolge in 4 atti: gli antipasti – 6 o 7 serviti sul tavolo, tra cui anche alcuni primi, magari al forno: «Mi piace vedere la tavola imbandita, gli ospiti si passano le cose», la piece, i formaggi, i i dolci. L'obiettivo? Portare nei grandi ristoranti l'alta cucina all'italiana.
Partiamo da qui: dall'Italia. Cosa l'ha convinta a fermarsi qui?
Cito quel che dice un collega che è anche un amico, Enrico Crippa: «fare il cuoco in Italia ha un sapore totalmente diverso». È come se aggiungessi un tassello al grande disegno della cucina italiana, a quello che è il tuo paese, le tue origini, la tua storia.
E poi c'è il lavoro sul territorio, con contadini, allevatori, artigiani
Smuoviamo molto, così si lascia qualcosa a chi verrà dopo. Mi piace pensare che un giorno servirà anche alla mia bambina che ora ha 5 anni.
In termini pratici, invece?
Se avessi voluto più benefit e più soldi sarei andato in Asia. Sto qui perché ci credo, credo al gruppo della cucina italiana. Sento che oggi nel mio piccolissimo posso dare un contributo, quindi testa bassa e lavorare, cerco di fare il meglio.
Cosa dà andare all'estero?
Apertura mentale, innanzitutto, conoscenza di un modo di approcciare la cucina totalmente diverso da quello italiano.
Si spieghi meglio
Ho avuto la possibilità di fare 6 anni di Francia, 5 in Giappone, 2 nel Regno Unito e sono stato anche in Australia. Ogni nazione ti dà quello in cui è più forte culturalmente, poi sta a te tirar fuori il tuo carattere. Non esiste quando dicono: è la migliore cucina al mondo. Dipende da cosa si parla.
Entrando nel dettaglio?
I francesi sono maestri nella vendita, nell'organizzazione, nella gerarchia, hanno un legame storico con la gerarchia, con il rispetto, e queste cose anche a livello burocratico le vivi tanto. In Giappone invece la cosa che senti di più è precisione, la professionalità, la capacità di replicare le cose in maniera maniacale, anche lì è molto duro, gerarchico in modo assurdo, per esempio durante i meeting, quando parli di business ci sono regole, approcci, cose stabilite su cui non si scherza. I francesi hanno nel Dna la grande ristorazione, i giapponesi il business, la perfezione.
E gli italiani?
L'estro, la parte artistica più romantica e sognatrice, abbiamo questo approccio, e non solo in cucina, che ci invidiano nel mondo.
Ora è in Val Badia, come va?
Ho la fortuna di essere in un punto dell'Italia in cui sono fortissimi. Al Perla c'è un'organizzazione, anche burocratica, centro europea, c'è una mentalità molto quadrata, per dire: anche mia moglie, che è giapponese, qui si trova benissimo.
E lei?
Sto veramente bene, anche se da persona del sud talvolta questa cosa la soffro, mi piace ogni tanto uscire fuori dagli schemi. Ricordo in Giappone: se cambiavi anche solo una virgola c'era il panico totale, una variazione del menu durante il servizio o un cambiamento minimo che sballava la tabella di marcia era un delirio perché tutto è organizzato ai 5 minuti. In Giappone avevo la gestione del ristorante e vivevo anche l'aspetto burocratico: prima di arrivare al punto finale c'erano tantissimi passaggi, un iter da completare, firme su firme. In Italia ogni tanto qualcuno dice: «me la vedo io, mi prendo io la responsabilità», in Giappone non esiste, gli iter burocratici sono fissi, è come essere in una grande azienda in cui contano i numeri. All'inizio è strano, poi ti abitui e vedi che così tutto gira liscio. Bisogna sapersi adattare.
Immagino però che quando si ha a che fare con la burocrazia sia meglio all'estero
All'estero ci sono sistemi burocratici più collaudati e organizzati. Ma, e qui riprendo le parole di Crippa, fare questo lavoro in Italia ha un sapore diverso, non ha eguali, passi sopra a tutto, alle tasse altissime, alla burocrazia lenta, però è il tuo paese, quindi va bene così. Francia e Giappone vivono il settore della gastronomia come un business duro e puro.
In Italia non è così?
Noi italiani lo viviamo come casa ed esperienza di vita. Qui sento parlare di accoglienza, umanità, delle esigenze dell'ospite e mi piace di più. Ma alla fine loro ti mettono davanti agli occhi una realtà che può sembrare crudele, ma che è efficace: in quel modo loro possono andare avanti.
Ma come viene percepita la ristorazione fuori dall'Italia?
Da George Blanc e Michel Bras era sempre pieno, neanche chiedevi quante prenotazioni c'erano perché era sempre al completo. L'alta ristorazione culturalmente è dei francesi. Si va al grande ristorante: il sabato o la domenica a pranzo ci sono le famiglie, si fanno cerimonie di tutti i tipi. Il ristorante è cosa loro. In Giappone sono abituati ad avere alti livelli e grandi esperienze, anche nello street food, i grandi ristoranti sono curatissimi, un tre stelle giapponese è veramente a un livello mostruoso.
Arriviamo a noi
In Italia la cosa che mi piace di più è l'accoglienza, il farti stare a casa, quello è il nostro Dna, quello delle grandi tavolate nei giorni di festa. Una cosa che spesso abbiamo abbandonato per seguire cose che non ci appartengono.
In che senso?
Naturalmente è solo un mio pensiero, ma credo che ci siamo un po' omologati al mercato globale con il menu degustazione, la ceramica giapponese, e tutto quello che il mondo richiedeva, perdendo la nostra essenza italiana. Secondo me la grande domanda che bisogna porsi e mi pongo, oggi – nel 2024 – cosa è l'alta ristorazione per noi italiani.
E quale è la risposta?
Condivisione, umanità, le sfaccettature tipiche della cucina italiana che possono fare la differenza. E poi ovviamente materia prima di altissimo livello e la sua massima espressione. Che cos'è che ci manca? Il mettere tutto insieme in tavola? Ma questa è l'Italia. Sono cresciuto in queste tavolate addobbate, cerco di elevare a un gradino più alto l'esperienza conviviale che mi è stata trasmessa quando ero piccolo, portando professionalità all'esperienza italiana. Ed è quello che ho voluto fare qui con Incö: riportare l'alta cucina italiana.
Viene capito dagli ospiti?
E lo vedo qui in Alta Badia, dove ci sono tantissimi stranieri. Gli dico: per me questa è la massima espressione dell'alta cucina italiana e loro sono contenti, finalmente trovano qualcosa di diverso da quello che potrebbero trovare a Tokyo o New York dove non c'è questa cultura della grande tavolata, degli antipasti da condividere. Noi ce l'abbiamo e la nascondiamo forse perché non fa parte delle regole internazionali della grande cucina. Perché ancora non è stata riconosciuta. Ti viene detto che se vuoi fare alta cucina devi presentare un menu degustazione – intendiamoci, lo faccio anche io – ma mi sento molto più cuoco italiano nella tavola di Incö, con una libertà e un approccio senza eguali, per la materia prima che tocco, per come la gestisco e la servo, cose che vanno oltre un degustazione.
Cosa è allora?
Qualcosa di più vicino a quel che faceva mia nonna: apparecchiare la tavola, portare il meglio che abbiamo, condividerlo, raccontarlo. È la tavola come mi è stata insegnata e trasmessa dalla mia famiglia, non era né di albergatori né di ristoratori. Se una guida come la Michelim riconoscesse questo tipo di format all'italiana, allora saremmo siamo nel nostro...
La Stua de Michil - Corvara in Badia (BZ) - Str. Col Alt, 105 - 0471 831000 - www.laperlacorvara.it