Ecco perché molti chef servono la pasta alla fine del menu

17 Feb 2025, 17:42 | a cura di
Che sia con un classico ragù, o abbia declinazioni amarissime come un digestivo o acidule e fresche come un predessert, sempre più spesso la pasta si sposta a chiudere la parte salata dei menu

«Se in un ristorante ti servono 18 piatti, senza pasta, ti hanno servito 18 antipasti». Lo diceva Alessandro Negrini (con Fabio Pisani alla guida de Il Luogo di Aimo e Nadia), sintetizzando l'attitudine tutta italiana verso la pastasciutta (quella «Assurda religione gastronomica italiana» come la definiva Filippo Tommaso Marinetti), fondamento della nostra cultura gastronomica ed elemento costituente del pasto all'italiana. «Senza mi sembra di non aver mangiato», dicono in tanti. Eppure la pasta – quella secca che conosciamo noi – è cosa recente sulle nostre tavole. I ricettari antichi ne parlano, ma con abitudini di consumo molto diverse da oggi, non solo per quanto riguarda i tempi di cottura (anche due ore come scrivono Maestro Martino nel '400 e Bartolomeo Scappi tra '500 e '600) ma pure per la funzione: come contorno, come ancora accade all'estero e alla stregua del riso in certe parti del mondo, oppure come crosta o copertura di carni. E se fino al '500 era uno sfizio per pochi, accompagnata con zucchero e cannella, dal '600 in poi crebbe di popolarità dopo che innovazioni tecniche l'hanno resa un cibo disponibile e a buon mercato, «anche semplice da preparare, perché bollito in acqua non doveva essere controllato costantemente: le donne mentre provvedevano al cibo potevano fare altro» aggiunge Marco Ambrosino, chef che sulla pasta ha fatto lunghe riflessioni e molte sperimentazioni. A un certo punto in Italia ha smesso il ruolo ancillare, di contorno, per diventare portata principale e noi da mangia foglie siamo diventati mangiamaccheroni. Nel XVIII era il cibo del popolo a Napoli, e bastava a se stessa; solo dopo si è aggiunto qualcosa prima e qualcosa dopo, dandole la posizione che occupa ancora oggi, tra antipasti e secondi.

Spaghetto cotto in un vino ossidativo, olio al ginepro e scorza di agrumi bruciati ed erbe aromatiche. Marco Ambrosino

Amaro, digestivo o predessert?

Sempre più spesso c'è chi si prende la libertà di spostarla, la pasta: Karime Lopez e Taka Kondo da Gucci Osteria servono Non dire cassate: nato come predessert, oggi – con la stessa ricetta – è un primo piatto. Il punto è pensare alla pasta come elemento del piatto al pari di altri, non come protagonista assoluto. «Nessuno aprirebbe o chiuderebbe un menu con un primo, un piatto DI pasta, ma si può fare con piatti CON la pasta» sintetizza Ambrosino. Da anni serve i carboidrati in due momenti diversi, un po' per preferenza personale: «due piatti di pasta in fila non riesco a mangiarli al centro di un menu», un po' per una questione ludica: «presentare lo spaghetto dopo le carni crea una reazione nell'ospite, rimanda un po' alla spaghettata di fine serata». Scardinare lo schema consueto, dunque, consente di dare a rigatoni&co un ruolo non di mero supporto ai condimenti, mettendo in luce caratteristiche peculiari spesso trascurate. Da Sustanza la chiusura del degustazione (in carta non c'è, perché non venga frainteso) c'è uno spaghettino cotto in vino ossidativo, olio al ginepro, scorza di agrumi bruciati ed erbe aromatiche: tutt'altro che confortante, amaro e superbalsamico, ha consistenze e sensazioni tattili inaspettate. È un elemento di rottura. Inizialmente non è stato pensato come predessert – piuttosto un prodromo al dessert – ma ne ha presto assunto la funzione, e per questo è stato premiato nella nostra guida Ristoranti d'Italia 2025. È difficilmente collocabile in un'altra zona del pasto e in porzioni maggiori dei 15 grammi previsti.

Spaghetto tonico. Gianluca Gorini. Foto Nicolo Brunelli.

Sono 20 invece i grammi dello Spaghetto tonico, ultimo step salato di Gianluca Gorini (uno dei nuovi premiati con le Tre Forchette, massimo riconoscimento per la guida Ristoranti d'Italia del Gambero Rosso). «Le persone, se non è in menu, ce lo chiedono», racconta lo chef di Bagno di Romagna. Quel finale inconsueto ha fatto presa sui suoi clienti: originale, divertente ma soprattutto stimolante al palato, è mantecato con burro acido, aromatizzato alla genziana e servito con una scorzetta di bergamotto candito sul bordo del piatto per dare equilibrio e aromaticità al tutto. Il burro è veicolo di aromi, dà struttura e una certa avvolgenza che – assieme al pecorino - chiude e bilancia il piatto. Di nuovo note amare e balsamiche che prolungano la sensazione al palato. L'ispirazione è quella dei digestivi da fine pasto, tradizione tutta italiana cui lo stesso Gorini è appassionato, per questo il piatto è stato pensato per quella posizione.

Spaghettino indivia miele pepe, sambuco. Alberto Gipponi. Foto Lido Vannucchi

Il gioco delle strutture

Anche Gualtiero Marchesi – che Gorini ha vissuto per interposta persona, attraverso Paolo Lopriore – serviva i carboidrati a fine del pasto. Da lì in molti: «da 20 anni Bottura serve tortellini alla fine, come una specie predessert» ricorda Alberto Gipponi, che tre anni fa da Dina (altra new entry tra le Tre Forchette) ha firmato il menu I M PASTA, in cui trasforma il nostro cibo-simbolo in ingrediente: stracotta, stirata, vetrificata, punteggiava in modo imprevedibile tutto il menu. Gipponi ha una vocazione alla concettualizzazione e in quel lavoro ragionava anche sul valore dell'assenza - un piatto di pasta può esistere senza di essa? - cominciando con italianissimi sughi, ripieni e intingoli privati del loro vettore amplificandone così l'importanza nel nostro immaginario. Si muove scavando in profondità, per dare più valore possibile a un elemento fenomenale che in Italia ci ostiniamo a osservare in un'unica prospettiva. «Non volevo provocare, ma offrire qualcosa che raccontasse il mio percorso». Enel suo percorso c'è tantissima pasta. Da ragazzo ne era annoiato, da cuoco no: «acqua e farina sono una tela bianca» dice e sottolinea come la parte tattile sia componente fondamentale nell'esperienza gastronomica. L'esempio è il risone: in bocca è viscido, sfuggente: «un po' come l'ostrica» spiega, e allora lui l'abbina al mollusco, unisce olio evo e alloro e ne fa un antipasto conquistando una posizione inconsueta. «Se gli dai un senso nel racconto puoi fare tutto» commenta. L'ha poi usata come elemento di contorno di un main course e in un predessert ormai classico: uno Spaghettino dalla consistenza gommosetta data dalla canditura con miele, aceto di miele, pepe di Tellicherry che genera sensazioni chinestetiche di calore in contrasto alla foglia di indivia gelata sotto cui è nascosta.

Pasta vetrificata. Alberto Gipponi. foto. Mattia Aquila

Gipponi ha sperimentato tanto, studiando procedimenti e cotture inusuali, cercando strutture particolari (come nella pasta vetrificata o quella scottissima), trompe l'oeil (nei casoncelli crudi ma cotti, in cui la sfoglia gelificata, pastorizzata infine cotta pare completamente cruda), trasformandola in quelli che lui chiama cocktail solidi come il Bloody Gippo, o nei passatelli ghiacciati con brodo di carciofi serviti come amaro, o ancora nella sua versione del virgin tequila con pasta di latte di mandorla e farina, sale mandorle e limone. Altro che cocktail no alcol!

Cappelletti vuoti alla panna e fegato di pesce. Jacopo Ticchi. Foto: Sefania Zanetti e Matteo Bellomo

Il primo piatto come godimento finale

A Senigallia abbiamo visto primi piatti spostati in fondo sia da Mauro Uliassi (che chiudeva il Lab 2024 con la Tagliatella con ragù di pernice e tartufo nero) sia da Moreno Cedroni (che ama disorientare nel tasting Luca e Moreno), mentre a Rimini Jacopo Ticchi li serve dopo i crudi, il pesce cotto in crosta di pepe nero e quello alla brace, il guazzetto e perfino gli intermezzi (come polpo e caffè, e granita al lime e acqua di mare). Perché? «Anni fa ho sentito Cracco parlare di un bello spaghetto alla carbonara come finale di certi menu un po' troppo astratti. Ho iniziato a ragionare sulla posizione della pasta. La metto alla fine per dare la precedenza al nostro focus, che è il pesce nelle sue strutture. La pasta qui non è un atto principale, ma ha il ruolo di godimento finale». I Cappelletti vuoti alla panna e fegato di pesce mettono insieme i classici tortellini alla panna e i tortellini bugiardi. Precotti al vapore, seccati e poi cotti in acqua per dare una consistenza decisa, vanno con scaloppa di fegato di pesce scottata alla brace, panna, noce moscata limone e colatura di alici con un morso intenso, dolce, grasso bilanciato dall'acidità. Per ora è così, in futuro chissà.

Rumtopf. Alessandro Golmozzi. Foto: Stefano Caffarri

La digestione e il divertimento

«Siamo abituati alla suddivisione classica del menu, ma sono luoghi comuni senza nessun senso né gastronomico né legato alla salute» commenta Giuseppe Iannotti che da Kresios è solito servire la pasta alla fine: nei suoi menu alla cieca, con moltissimi bocconi serviti a passo di carica, non vuole dare coordinate sul punto del pasto in cui ci si trova. Non solo: «quando c'è un ritmo sostenuto di servizio non ci accorgiamo quasi della posizione, ma il carboidrato in mezzo al menu può essere un problema: se smetti di masticare e deglutire per più di 10 minuti inizia la digestione dei carboidrati che dà quello stato di appagamento tipico, distraendoti dalle portate seguenti, quelle principali». Alessandro Gilmozzi ha lavorato con un gastroenterologo per studiare l'intervallo corretto tra un piatto e l'altro per non affaticare il processo digestivo: 7/8 minuti. Nel suoi menu non supera mai i 60 grammi complessivi di pasta, neanche in quelli dedicati a questo prodotto su cui lo chef di El Molin ha cominciato a sperimentare intorno al 2010, poco dopo le prove di Davide Scabin (come non ricordare il suo pongo?) «l'input me lo ha dato lui: è il maestro in assoluto dello studio della pasta». In anni e anni di prove e menu dedicati l'ha strapazzata in ogni modo, trasformata in chips o maionesi, scomposta e ricomposta, sperimentando processi nuovi, come la reidratazione sotto vuoto che permette di cuocerla solo un minuto e mezzo (con un bel risparmio di energia, acqua e tempo). Così trattata si conserva fino a 3 mesi, dopo i quali una leggera fermentazione apre nuove opportunità: distillata e aromatizzata diventa un gin con gradazione alcolica sui 20 gradi. Lo chiama Profumo di pasta. È uno dei molti esperimenti riusciti.

Macaron di pasta. Alessandro Golmozzi. Foto: Stefano Caffarri

Tanti sono quelli in pasticceria che sfruttano come ingrediente - impasto secco di acqua e farina - per bigné o altri dolci. È il caso del mochi o del macaron preparato con farina ottenuta da pasta candita con una infusione leggera e poi seccata, frutto di centinaia di prove. Nel Rumtopf riprende la ricetta della frutta in infusione alcolica, tipica del Trentino Alto-Adige, e la applica ai fusili di farro cotti per 5 minuti e poi lasciati in infusione con rum e sciroppo di sambuco per 15 ore a 4°. Il risultato? Struttura perfetta, aromi di frutta e bacche di bosco. La abbina a frutta e gelato. Fanno parte dei petit four di El Molin, segnano la posizione più lontana dal centro del menu che una pasta abbia mai conquistato.

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