Oltre il fine dining: così gli chef sono alla ricerca di alternative alle stelle e ai costosi modelli nordici

6 Gen 2025, 10:18 | a cura di
Dai Cerea a Gorini, da Lopriore a Cantafio, i cuochi sono alla ricerca di un modello italiano di convivialità e di qualità

Se ci cerca l’origine della parola-concetto “fine dining”, tutto riporta alla nascita dei primi ristoranti gourmet nella Parigi di fine ‘700. Ma non si troverà mai la spiegazione di come una parola inglese sia arrivata a definire un concetto, un modello di ristorazione che è francese. «Vedo tanti miei colleghi dire che il fine dining non morirà mai – sorride Paolo Lopriore, l’allievo più “puro” di Gualtiero Marchesi – Ma nessuno sa con precisione dove e quando sia nato. E se una cosa muore, dovrà pur aver avuto un’origine!». Eppure, anche se non sappiamo bene da dove nasca, proviamo quantomeno a capire se abbia un futuro e cosa sia, questo benedetto fine dining su cui consumatori, chef e opinionisti si danno battaglia infiammando i social.

Un piatto di cucina nordica del Noma di René Redzepi: spiedino di lumache di mare dal menu Ocean (foto di Ditte Isager)

Lopriore, il fine dining e la Nuova cucina nordica

La prima sensazione, o naso, è che se pure tutti gli “stellati” gridino che non morirà mai, tutto sommato il “fine dining” sembra essere superato già nei fatti da una serie di professionisti appassionati e seri che non ci stanno a sottostare alle mode senza fiatare. Paolo Lopriore – che pure in nome del “fine dining” (o presunto tale) è stato il bersaglio di feroci critiche quando al Canto della Certosa di Maggiano a Siena al posto della Fiorentina presentava un cubo di splendida carne di manzo cruda – un’idea ce l’ha. «Credo che ciò che si intende oggi come fine dining sia un concetto nato in Nord Europa tra le fine degli anni ’90 e i primi del 2000. Lì, dove non esiste in realtà una tradizione culinaria vagamente paragonabile con lo spessore della nostra, hanno coniato un modello impostato più sul contenitore che sul contenuto – ipotizza Lopriore – A quelle latitudini, l’unica cucina di livello era quella francese. Poi, con la Nuova Cucina Nordica, hanno unito tecniche di cucina francese a pratiche locali come le fermentazioni concentrandosi però soprattutto sull’estetica della tavola e del piatto, sul design. Sul rapporto (più concettuale che altro) con la natura e con il mondo “wild”. In mancanza di calore – sorride lo chef – hanno riempito le tavole di ceri; ma i ceri qui li usiamo al cimitero. Noi, invece, che abbiamo da sempre un sacco di sostanza e di contenuti e meno forme, abbiamo cominciato a seguire quel tipo di moda lì che si è sviluppata ed estesa soprattutto attraverso i social. Pensate alle piccole tegole – derivazione dalle tuile francesi dolci o salate – che oggi hanno invaso i menu di tutti i fine dining e che veicolano ogni cosa: quelle se le è inventate Rasmus Kofoed del Geranium di Copenaghen per il concorso Bocus d’Or. E tutti a seguirlo, ma invece di portarle a un concorso le portano sulle tavole dei loro ristoranti». Tegole o mini-tacos che siano.

Cerea: risotto mantecato al pesto con gambero di Santa Margherita Ligure, bisque, uova di salmone, polvere di nero di seppia e pomodoro del Piennolo (foto di Emanuele Rossi). In apertura i Paccheri alla Vittorio (foto di Beatrice Pilotto)

Il modello italiano: accoglienza e ingredienti

Arriviamo però al punto della questione. Che senso ha il fine dining per la cucina italiana? «Non credo che questo concetto, così determinato, abbia un senso per noi – afferma Paolo Lopriore – Il “nostro” fine dining è nel calore familiare dell’accoglienza: questo è il valore che segna la tradizione gastronomica italiana. Sia l’accoglienza fisica nel ristorante, sia l’accoglienza golosa con portate che accendono il piacere, che stimolano la convivialità, che fanno star bene e rilassati». Non a caso, un cuoco-ristoratore di grande successo in Italia e nel mondo come Chicco Cerea che con la famiglia celebra il rito quotidiano di Da Vittorio a Brusaporto, a proposito della “via italiana” al fine dining commenta: «Credo ci sia bisogno di una cucina di alto livello con materie prime eccezionali e una cucina rilassata». Una formula, un metodo, che parte dagli storici “Paccheri alla Vittorio” fino alla Ventresca di tonno, melanzana bianca e aceto balsamico proposta nell’insegna di famiglia a Shangai.

Gianluca Gorini e l'appagamento totale

Accoglienza, dunque, che è concetto caro pure a un altro “outsider” come Gianluca Gorini, cuoco a Bagno di Romagna che è nato in una famiglia di osti, ha lavorato nel ristorante di Paolo Teverini («che tra i ’90 e il 2000 è stato un riferimento assoluto per la ritrazione italiana») ed è stato poi al fianco di Lopriore a Siena, prima di aprire la sua insegna in quella che era una trattoria storica del territorio, la Locanda del Gambero Rosso. «Oggi il ristorante deve essere un luogo inclusivo, deve saper appagare i sensi a 360 gradi: cosa che significa saper creare un luogo dove non siano solo serviti dei grandi piatti, ma dove ci sia una grande ospitalità. Per me è questa dimensione dell’ospitalità la vera caratteristica della tradizione italiana, dal ristorante borghese alla trattoria e fino – spero – al fine dining. È un luogo dove si cerca un momento di appagamento totale».

Il modello "pranzo della domenica"

Ma cosa significa? Per chi la conosce, la cucina di Paolo Lopriore nella sua versione lombarda inaugurata con l’avventura del Portico è quasi un manifesto di una nuova cucina italiana oltre l’instagrammabile fine dining. Ma anche un altro chef che pure fa fine dining e che è rientrato da poco in Italia dopo anni e anni in strutture gourmet internazionali, non lascia spazi di dubbio: «Il vero senso del fine dining italiano è da ricercarsi nello spirito dei pranzi della domenica, delle tavole famigliari imbandite nei giorni di festa dove parenti vicini e lontani si ritrovavano intorno a piatti che invitavano alla condivisione e alla convivialità», afferma Simone Cantafio, ora alla Stua de Michil in Val Badia dove è rientrato dopo esser cresciuto tra Cracco e Marchesi di cui è stato uno degli ultimi allievi e rientrato nel Belpaese dopo più di 10 anni in giro per il mondo tra Francia e Giappone. E certo, Cantafio la ristorazione internazionale di alto livello la conosce bene. «Mi riferisco – afferma lo chef in un’intervista rilasciata ad Antonella De Santis per il nostro sito (gamberorosso.it) – a una identità che spesso abbiamo abbandonato per seguire cose che non ci appartengono. Naturalmente – spiega – è solo un mio pensiero, ma credo che ci siamo un po' omologati al mercato globale con il menu degustazione, la ceramica giapponese, e tutto quello che il mondo richiedeva, perdendo la nostra essenza italiana. Secondo me la grande domanda che bisogna porsi e mi pongo è: oggi, nel 2024, cosa è l'alta ristorazione per noi italiani?»

Simone Cantafio

Cantafio e la cultura della tavolata

Ecco, cosa è? «Condivisione, umanità, le sfaccettature tipiche della cucina italiana che possono fare la differenza. E poi ovviamente materia prima di altissimo livello. Sono cresciuto in queste tavolate addobbate, cerco di elevare a un gradino più alto l'esperienza conviviale che mi è stata trasmessa quando ero piccolo, portando professionalità all'esperienza italiana. Ed è quello che ho voluto fare qui con Incö: riportare la tavola all'alta cucina italiana». Ma ci capiranno gli stranieri abituati alle tavole del jet set internazionale? «Qui in Alta Badia ci sono tantissimi stranieri. Io spiego loro: per me questa è la massima espressione dell'alta cucina italiana e loro sono contenti, finalmente trovano qualcosa di diverso da quello che potrebbero trovare a Tokyo o New York dove non c'è questa cultura della grande tavolata, degli antipasti da condividere. Noi ce l'abbiamo e la nascondiamo forse perché non fa parte delle regole internazionali della grande cucina. Perché ancora non è stata riconosciuta».
Dunque, al di là della difesa di facciata di un non meglio identificato fine dining, sono diversi i cuochi espressione della migliore cucina italiana che cominciano a pensarla diversamente dal “main stream”.

Paolo Lopriore al Portico di Appiano Gentile (Como)

Il metodo italiano: una scuola per stranieri

Addirittura, Paolo Lopriore pensa anche a una scuola. Ma per stranieri, non per italiani! «Se siamo stati capaci di accettare così facilmente le mode che arrivano dall’estero, perché non puntare anche su un concetto e un modello di cucina italiana che possa far breccia all’estero? La cucina italiana è un territorio sconfinato: penso più al metodo che non alle migliaia e migliaia di ricette tradizionali e famigliari che fanno e hanno fatto la nostra storia gastronomica. Potrebbe essere interessante insegnarlo ai ragazzi all’estero i quali non hanno pregiudizi gastronomici come invece hanno i nostri ragazzi. Mi spiego: se io faccio una buonissima polpetta, un allievo cuoco italiano la gradirebbe e ne sarebbe anche appagato, ma difficilmente vorrà proporla in un menu quando e se aprirà un suo ristorante. Il fine dining come si percepisce oggi non lascia spazio alle polpette. Eppure, anche la polpetta è e può essere fine dining. Negli anni Sessanta il fine dining italiano era l’Osteria Cantarelli che aveva Due Stelle. Poi, tutto ha iniziato a cambiare. Gualtiero Marchesi ha dato una nuova dimensione alla cucina italiana. Eppure, quando gli chiedevano perché avesse cambiato la cucina italiana lui rispondeva che non aveva cambiato la cucina, ma il cliente e il modo di avvicinarsi alla tavola. Io poi, oggi mi trovo in dissonanza con lui che è stato mio maestro. Marchesi diceva che il bello è anche buono. Ma non sempre è così: lo spezzatino non è bello, ma è o può essere molto buono. Oggi nel mio ristorante di Appiano Gentile ho avuto 32 persone a pranzo a mangiare il pollo fritto. Per quel paesino è una cosa davvero particolare. Evidentemente il pollo fritto e il mio modo di impostare la tavola comincia a conquistare anche gli abitanti di Appiano Gentile. Non mi percepiscono come il cuoco fine dining, ma come parte del loro mondo e della loro storia».

Paolo Lopriore: gnocchi di patate, finferli, pomodoro, pepe nero e pecorino

Paolo Damilano e la trattoria di lusso italiana

Sempre sul fronte nuovo modello di ristorazione, anche un imprenditore come Paolo Damilano (vino, stellato e bistrot tra Langhe e Torino) ha detto la sua affossando il modello fine dining: «Penso a una trattoria chic: per raccontare a turisti e appassionati il meglio dell’Italia a tavola, senza ambire alla stella, ma offrendo un servizio lusso e una cucina di ottima qualità – ha affermato al Gusto di Repubblica illustrando il progetto di investimento all’estero – Obiettivo: dare un contributo importante nel rappresentare l’enogastronomia italiana all’estero a partire dall’Europa, cavalcando l’onda del ritorno alla tradizione. Inizierei con la Germania e la Svizzera per poi allargarmi negli Usa, dove ci sono comunità italiane che conoscono e apprezzano i nostri prodotti. Ma ho in mente di espandermi anche in Italia, a partire dalle grandi città come Roma e Milano».

Il punto, però, non sembra essere se la trattoria sia in sé l’alternativa secca italiana al fine dining. E questo ci tiene a spiegarlo bene Lopriore: «Una volta, la differenza vera tra ristorate e trattoria era solo nelle posate, nei piatti e nei bicchieri. Il pollo, alla fine, era della stessa qualità. Dal Pescatore dei Santini a Canneto sull’Oglio riprende un po’ quella cosa li: porta i tortelli di zucca in piatti d’autore. I ricchi mangiavano nell’argento e nella porcellana, i poveri nel legno e nella terracotta, ma la qualità del cibo era più o meno la stessa. Poi, dal boom economico le cose sono cambiate. L’altro giorno mi hanno chiesto la Catalana. Gli ho risposto che forse aveva sbagliato piatto o locale. Al massimo posso arrivare all’insalata russa!», sorride Paolo.

L'agnello in 3 servizi di Gianluca Gorini

"Il fine dining deve cambiare, ma non sa come"

E gli fa eco l’allievo Gorini: «La mia sfida è quella di rendere un racconto reale del nostro vissuto quotidiano: così forse si va anche oltre l’assegnazione di un bollino che certifichi se sia trattoria, ristorante o fine dining. Sarebbe bello riappropriarsi di quei tratti distintivi che hanno sempre caratterizzato la nostra tradizione gastronomica: certo, alla luce degli insegnamenti e delle conoscenze, delle tecniche e delle tecnologie attuali che permettono di evidenziare meglio i sapori, di valorizzare meglio ingredienti di alto livello. Forse – riflette Gianluca Gorini – è anche giunto il momento di pensare a un modello che ci appartenga e non solo a replicare. Possiamo anche cercare una sintesi tra fine dining, ristorante, trattoria o osteria e sperimentare un modello che ci appartenga di più. La nostra è una cucina che viene dalle campagne, dai prodotti, dai gesti e dalle sapienze, dai momenti conviviali che sono il pranzo della domenica così come il pranzo borghese al ristorante o quello in osteria. Perché non farci carico di queste eredità e traslarle in un percorso che vada oltre?». Chiudiamo con un commento di Fabrizio Pagliardi, ristoratore romano alla Barrique e “champagnista” della prima ora: «Come si può pretendere che un fenomeno commerciale di qualsiasi genere possa durare trenta anni senza cambiare più di tanto? Ormai il più moderno e nuovo stellato risulta stantio e polveroso per i più giovani appassionati. Il fine dining non è morto, deve cambiare e ho la sensazione che non sappia come cambiare».
La sfida è aperta.

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