Piatti giganteschi, porzioni minuscole, abbinamenti sconclusionati. Questo è quanto rimane, nell'immaginario comune, della Nouvelle cuisine. Quanto rimane consapevolmente, perché invece, a livello inconscio, il lascito di quel movimento è enorme. Ci azzardiamo a dire addirittura che ha cambiato per sempre il nostro modo di mangiare, dettando molte delle regole che oggi crediamo siano evidenze così ovvie che siano sempre state lì, senza che nessuno le dovesse inventare. Eppure non è così. Non lo è in Italia oggi, lo era ancor meno nella Francia degli anni Settanta, quando comparve un nuovo tipo di cucina. Nouvelle cuisine, appunto.
Un po' di storia della cucina che ha cambiato il mondo
Una definizione che ha varcato i confini del ristretto circolo degli addetti ai lavori, per la sua portata rivoluzionaria, per l'adesione allo spirito dei tempi, e forse pure per l'assonanza con Nouvelle vague o Nouveau roman. Come questi o altri movimenti artistici, la definizione si deve alla penna di giornalisti e critici: in questo caso Henri Gault e Christian Millau, autori di una guida dei ristoranti in aperta competizione con la Michelin per toni e approccio, per la ricerca di novità e il debole per una cucina senza eccessi di burro e di panna, ben distante dalla grandeur francese.
La trovarono in provincia, vicino Lione, dove Paul Bocuse (dopo l'apprendistato da madame Point) li conquistò con un'insalata di fagiolini e pomodori (prodotti su cui anche i più grandi possono cadere), poi fu il turno dei fratelli Pierre e Jean Troisgros a Roanne e delle loro rane alle erbe. Piatti semplici, ricette contadine, cucina espressa. Rinnovarono la guida nel 1972 e l'anno successivo elaborarono un manifesto, ancora una volta sulla falsariga di quanto accade nel mondo artistico. All'epoca i due volevano farsi spazio nel panorama della critica gastronomica, orfana da qualche anno di Curnonsky - il Principe dei gastronomi – rompendo i canoni dell'alta cucina, considerata troppo borghese e anacronistica.
Tutto era pronto: i giovani cuochi formati nelle cucine dei mostri sacri dell'epoca, una volta apprese le tecniche classiche, volevano distinguersi togliendosi di dosso la polvere del tempo. Erano Paul Bocuse, i fratelli Troisgros, Alain Chapel, Michel Guérard, Roger Vergé. Oggi sono tutti scomparsi, ma allora rappresentavano la nuova generazione di cuochi. Un affresco gustoso, pieno di aneddoti e ritratti precisi, si trova nella biografia del Papa della gastronomia mondiale, Paul Bocuse.
La cucina e lo spirito dei tempi
Erano gli inizi degli anni Settanta (da noi Gualtiero Marchesi avrebbe aperto il suo ristorante qualche anno dopo), l'eco frizzantina del '68 non era ancora scemata, nascevano nuovi stili di vita e nuovi consumatori; si guardava al futuro, alla possibilità di costruire un futuro più aderente alle proprie ambizioni, anche in cucina. Questi cuochi erano giovani, ribelli, cercavano un loro modo di esprimersi e di cucinare, dalla loro avevano l'energia, l'entusiasmo che accompagna la nascita di nuove imprese, ma anche una clientela ugualmente intraprendente, pronta ad avventurarsi su nuovi sentieri gastronomici.
L'eredità di Auguste Escoffier, celebre cuoco francese che ha codificato il concetto di brigata in cucina, era ancora dominante, ma la linea tracciata creava una cesura con tutto quanto fino allora era sinonimo di alta cucina: via salse, fondi, grandi cotture, via anche impiattamenti elaborati e lunghe preparazioni che rimanevano da un giorno all'altro, soprattutto via i menu tutti uguali, basta con tournedos alla Rossini, basta sogliola au beurre blanche, basta lepre alla royale. Basta basta basta. Questi giovani avevano altre idee.
A morte i vecchi riti e ricette
Volevano creare liberamente, lasciarsi alle spalle ricette ormai infiacchite. E poi pensavano che la cucina dovesse essere leggera, immediata, basata su cotture veloci che rispettassero materie prime fresche e stagionali, con ricette da rinnovarsi un giorno via l'altro. Quel che usiamo chiamare cucina di mercato. Non era una novità assoluta: l'idea attingeva a piene mani da quanto avveniva tra le mura domestiche, soprattutto in campagna.
Un tempo, però, pensare di tradurre una certa cucina contadina nell'alta ristorazione era una vera eresia. Eppure qualcuno l'ha fatta, e tutti sono andati dietro. Indistintamente. Gli obiettivi di quella cucina sono diventati patrimonio universale: creatività (ma non fine a se stessa), leggerezza, tecnica, autenticità, qualità della materia prima e salubrità dei piatti si ritrovano ancora oggi, dentro e fuori dai ristoranti. L'unica vera differenza è nel dogma delle brevi cotture (oggi sappiamo che per certe pietanze il tempo è un ingrediente fondamentale) e nell'idiosincrasia per marinate, frollature e fermentazioni, tecniche - anch'esse - che possono offrire nuovi sapori senza appesantire i piatti. Un tempo, probabilmente, abusate per questo guardate con sospetto. Oggi certe prese di posizione così rigorose non sono più attuali, mentre certi piatti segnano il passo del tempo, ma l'idea di fondo di quella cucina è la nostra. Leggete il decalogo, e poi diteci.
Il manifesto della Nouvelle Cuisine
- Non cuocerai troppo
- Utilizzerai prodotti freschi e di qualità
- Alleggerirai il tuo menù
- Non sarai sistematicamente modernista
- Ricercherai tuttavia il contributo di nuove tecniche
- Eviterai marinate, frollature, fermentazioni, ecc.
- Eliminerai le salse e i sughi ricchi.
- Non ignorerai la dietetica.
- Non truccherai la presentazione dei tuoi piatti
- Sarai inventivo
Foto di apertura Patrick Rougereau