C’è un motel tra Milano e il nulla che è un apostrofo viola in mezzo ai palazzi del Naviglio Pavese. Un motel che è difficile da trovare, maledirete mille volte l’idea di aver deciso di arrivarci, salvo poi, alla fine, benedirla duemila volte. È il Motelombroso di Alessandra Straccamore e Matteo Mazza, divisa blu da operaio forse perché il luogo ha un’anima post-post-industriale, sorrisi da abbraccio, una delle sale più belle di Milano (la più bella?), lontana da ogni rumore, un giardino idealmente pensile, una capsula energetica difficile da raccontare (e non mi mancano le parole), un luogo ideale e ideologico (sì!) nel quale si investe nel capitale umano e civile.
Un motel dell'anima
Motelombroso è un motel dell’anima, un luogo unico a Milano (ambizione di tutti, realtà di pochissimi), nel quale posare i bagagli e far riposare per qualche ora pensieri e umori fatti stancare in precedenza dalle alte maree metropolitane; è cambiato già più volte negli anni di apertura e che da qualche tempo vanta anche la cucina fulminante di Nicola Bonora, sardo di Oristano, anima sottile e ferrigna, baffo tagliente, sguardo con mille diottrie, che segue una sua certa idea di ricerca, una ossessione visibile, palese, un’iperattività da bambino speciale. Che si esprime nel menu attuale, frutto di mille discussioni con i patròn, di litigi e riappacificazioni, di correzioni di rotta, di libri aperti e abbandonati, di atlanti scarabocchiati. Il progetto è quello di cambiare il menu ogni mese, dodici “habitat gastronomici” per un anno, ma lo schema non è rigido, dipenderà dalle stagioni, dagli stimoli, dalle fatiche e dai risvegli, dalla risposta del pubblico. “Nicola è sempre a mille, sforna dieci idee al giorno, ma ora anche lui sta rallentando un po’, ha capito che un menu al mese è anche troppo”, sogghigna Alessandra.
Selvaticissimo
Per il momento a gennaio e chissà fino a quando ecco Selvatico, cinque portate a 90 euro, che gioca con una certa idea di spontaneismo, di anarchia naturale, in cui la mano dell’uomo è prevista solo come atto di gratitudine. Piatti non facili, qui si viene per dar quiete alle membra e far lavorare il cervello, il conforto è visto solo come l’approdo di un paziente percorso di comprensione: si parte dalla Castagna lavorata come consommé, servita in una tazza in un gesto famigliare. Poi il Fagiano leggermente maturare all’orientale, cotto al vapore e laccato, servito freddo con olio all’erba cipollina, alloro e pelle croccante, terminato con un brodo chiarificato di carcasse. Il Cinghiale e pino ti porta dentro a un bosco, come un cappuccetto rosso in odore di lupo, grazie ai forti richiami balsamici: il cinghiale è sfilacciato, reso perfino terroso, e viene irrigato con una salsa quasi mielosa di sangue di cinghiale ben tirato e polvere di acri di pino. Un piatto dalla tattilità sconvolgente.
Quindi ecco un tuffo a mare con la Sardina, “pesce anarchico per eccellenza”, dice chef Bonora: un piatto destinato a dividere non tanto per l’estrazione di teste e lische da cui è tratta una salsa aglio, olio e peperoncino con un pesto di ortica e un brodo, ma per la pasta che vi si accomoda, servita a un livello di cottura ben oltre l’al dente, per dare una sensazione di totale masticabilità che io ho trovato sublime ma che certamente qualcuno potrebbe trovare immangiabile. Ma hic sun leones, un’idea è un’idea. Poi la Cernia burro e salvia, il pesce è fatto maturare in un grasso di faraona per trasformarla in un ircocervo, con la testa è creato un pil pil a base burro, olio alla salvia. Ancora, un ragù ristrettissimo alla bolognese con cacciagione: cervo, fagiano, colombaccio e starna, accompagnato da verdure bollite.
Poi un assoluto di datterino, quello di Giuseppe Parisi in Val di Noto, la sua salsa bruciata da fondo di pentola, le eliche di Benedetto Cavalieri, due camoni, uno dei quali ghiacciato e l’altro in fermentazione acetica a creare un ottovolante di temperature e consistenze, poi la pasta soffiata e frittà. Bùm. Si chiude con un predessert allo spinacio selvatico e con un Canelé reinterpretato.
Cosa si beve
Si bevono vini di frontiera, da produttori coraggiosi, anche se ci sono referenze più convenzionali. Il servizio è affidato ad Alessandra e Matteo, padroni di casa con cui è facile, quasi richiesto, entrare in
Perché in un motel non si fanno domande, ma si trovano un sacco di risposte.