E se lo chiamassimo semplicemente “il salista”? Perché dentro alla mancanza ormai cronica di personale nella ristorazione italiana – a tutti i livelli, da Autogrill al locale stellato fino alla trattoria sotto casa – contano certamente fattori più sostanziosi: i salari bassi, i turni scomodi, le prospettive di carriera scarse ed incerte. Ma chi segue i ragazzi nell’avvicinarsi a questo lavoro racconta che lì, in un angolino della testa, a smorzare il loro entusiasmo c’è anche quella brutta parola. Cameriere. Di fare il cuoco si è orgogliosi; “sono un barman” te lo spendi alla grande con gli amici. Ma quella parola brutta e un po’ servile (d’altronde in Francia li chiamano “serveur”) nessuno la vorrebbe sul biglietto da visita. Cosa fai nella vita? “La cameriera”. Urge un’altra definizione.
E urge che al cambiamento di nome si accompagni un cambiamento reale del mestiere di chi sta lì, in prima linea, a contatto diretto con il cliente, la prima faccia che appare a chi varca la soglia del locale. Perché si possono cambiare le parole quanto ci pare, ma se il lavoro che ti viene offerto è portare piatti e sparecchiare, e nient’altro, all’infinito: beh, come ci si può stupire se un giovane ne sta alla larga, o se scappa alla prima occasione?
La carenza degli aspiranti camerieri
Ciò premesso, partire dai dati divulgati in novembre dall’Epam di Milano, quelli finiti su tutti i giornali sulle diecimila paia di braccia che mancano all’appello nella ristorazione ambrosiana, costringe ad andare ben aldilà della vecchia diatriba. Da una parte chi reagisce dicendo: basterebbe pagarli meglio. Dall’altra si ribatte: basterebbe avere più voglia di lavorare. È ovvio che se le posizioni restano queste non se ne viene a capo. Ma di fronte alla inesorabile complessità del problema (economico, psicologico, culturale, sociale etc.) nel mondo della ristorazione c’è chi sta lavorando per cambiare le cose. C’è una luce in fondo al tunnel, insomma.
Il tunnel e la crisi
Ma il tunnel è lungo. Perché, come spiega Diego Montrone, che da decenni con la scuola Galdus istruisce futuri cuochi, pasticceri e camerieri (o salisti che dir si voglia) «il peggio deve ancora arrivare». Sì, perché con la crisi di manodopera attuale il calo demografico non c’entra niente, nonostante quanto si è scritto. «Le conseguenze del crollo delle nascite stiamo iniziando a vederle noi, a scuola, solo adesso. Proiettando i dati a due anni, vuol dire che la situazione nella ristorazione diventerà ben più critica tra il l 2025 e il 2026». Cosa accadrà? «Semplicemente che tanti dovranno chiudere per mancanza di personale».
Inevitabile? «Sì . Posso dire anche chi sarà a chiudere. Chiuderà chi si presenta da noi a giugno chiedendo di trovargli dieci ragazzi per la settimana successiva, chi pensa di trovare personale con un annuncio su un sito, chiuderà chi manda avanti il locale facendo lavorare il cugino o l’amico del cugino: perché prima o poi i cugini finiscono. Non chiuderanno gli imprenditori che seguono i “loro” ragazzi già nelle scuole fin dal primo anno, che li coltivano e li fanno sentire parte di un progetto e di un percorso di crescita: di ruolo, di stipendio, di testa».
Il “salista” del futuro, spiega Montrone, è molto più di un portapiatti, capisce di cibo, si intende di vino ed è anche un conoscitore delle neuroscienze: perché a determinare la soddisfazione del cliente, a attivare il cocktail di endorfine che lo porta a stare bene, uscire contento e voler tornare, entra in modo decisivo, insieme al contenuto del piatto, l’esperienza di sala. «Se invece per il vostro ristorante cercate solo uno che porti i piatti avanti e indietro – avvisa Montrone – è giusto che chiudiate».
Crisi di vocazioni
La crisi di vocazione riguarda un po’ tutte le figure professionali dell’hospitality. Resistono, anche se con qualche difficoltà, i corsi per cuoco e per pasticcere, che continuano a risentire dell’effetto positivo dei talent show televisivi. Si svuotano i corsi per il personale di sala, vivono una crisi profonda gli istituti alberghieri di Stato, con iscrizioni crollate in un biennio del 47 per cento: un dato eclatante, figlio anche della incapacità dell’istruzione pubblica di raccordarsi efficacemente col mondo del lavoro. Resistono le scuole professionali private. Ma l’approdo è comunque il ribaltamento del rapporto tra domanda e offerta: una volta era il ristoratore a scegliere lo staff, oggi è il lavoratore a scegliere il locale. Tocca al locale rendersi appetibile.
Negli ultimi mesi di quest’anno il fabbisogno nazionale di assunzioni nella ristorazione era stimato in 152mila unità, e – nei panel di Confcommercio – per il 60 per cento dei casi i ristoratori hanno incontrato difficoltà, soprattutto al Nord, nel reperire il profilo che cercavano. Esattamente il doppio del pre-Covid. Detto in sintesi: il mercato tira, la gente esce ancora per andare a pranzo e a cena; la zavorra che rischia di affossare centinaia di imprese è la mancanza di personale.
Lo sa bene Giampaolo Grossi, amministratore delegato di Giacomo, holding che dal primo ristorante storico a Milano, in via Pasquale Sottocorno, è arrivato a undici vetrine – tra ristoranti, bistrot e botteghe – sparse per l’Italia. Duecento dipendenti, e anche lui fatica a riempire tutte le caselle. «Mettere i ragazzi in una prospettiva di crescita è fondamentale: i manager di domani saranno ragazzi che oggi lavorano in sala, così come io ho iniziato pulendo i bagni. Poi c’è gente che brucia le tappe e c’è chi richiede più tempo, ma io devo dare a tutti la stessa possibilità di arrivare dove desidera, di correre, anche di sbagliare. Il difficile è quando ti trovi davanti uno che non ha voglia di mettersi in gioco. Ma lo capisci già al primo colloquio, dalle domande che ti fa. Sempre le solite tre».
Le tre domande solite
Le solite tre: quanti soldi, quante ore, quante ferie. Saranno ben domande legittime, perbacco! «Assolutamente si. Se però insieme a quelle non mi chiedono “cosa vi aspettate da me, cosa posso fare per il locale?” allora iniziamo male. Anche perché, diciamolo: è un lavoro duro. Ha aspetti persino militareschi, non a caso parliamo di “brigata di cucina” di “brigata di sala”. Così per affrontarlo serve passione, se lo scegli perché non sai cos’altro fare nella vita sei destinato a mollare».
Voi ristoratori non avete proprio niente da rimproverarvi? «Dando per assodato che le regole salariali e contributive vanno rispettate, in questi anni siamo stati carenti nell’ascolto. Non ci siamo chiesti a sufficienza come le persone si sentivano trattate, con che spirito venivano al lavoro. In questo vedo dei miglioramenti. E non solo in questo». Per esempio? «Nei ristoranti esistevano forme di nepotismo che abbiamo scardinato. Oggi un ragazzo più giovane può avere uno stipendio maggiore di una persona che magari è da anni nello stesso ruolo e che non è cresciuta. Credo nella meritocrazia. C’è sempre una seniority, c’è l’attenzione per chi ha famiglia, ma non può diventare un nascondiglio». Quante sere passa alla settimana nei suoi locali? «Sette». Quante sere le capita di arrabbiarsi? «Non mi arrabbio mai, l’ho cancellato dal mio vocabolario. Se qualcosa non va bene, e succede, cerco di capire i motivi della situazione sbagliata, del gesto sbagliato».
Soldi e bisogni
Dentro al colossale mismatch – in gergo da economisti – raccontato dal rapporto Epam ci stanno tutte le figure della ristorazione: cuochi e sous-chef, baristi e “salisti”. Ma ci sono anche, mischiati tutti insieme nelle gelide statistiche, i tanti universi paralleli del business del cibo, ognuno alle prese con difficoltà diverse, dove un McDonald’s ha esigenze lontane dai bisogni di Massimo Bottura. Ognuno reagisce a suo modo.
Guardiamo ai due absidi della galassia-cibo: il colosso Starbucks e il “Sottobosco” di Milano, piccolo e amabile ristorante in via San Luigi. Starbucks, che pure in America ha una recente storia di insurrezioni sindacali, in Italia è forse l’unico megabrand a non essere troppo in affanno sul fronte HR, risorse umane: i 25 addetti al nuovo negozio romano di via Cola di Rienzo sono stati trovati al volo, e lo stesso vale per le piante organiche degli altri negozi italiani.
All’estremo opposto della galassia c’è lui, Giorgio Raffaghelli, padrone del “Sottobosco”: «In tre anni ho cambiato quindici camerieri e venti addetti alla cucina, un incubo». Giorgio di colpe non se ne riconosce mezza: «Pago anche i periodi di prova, e non tutti lo fanno. E sono chiuso domenica e lunedì, proprio per garantire la qualità della vita mia e di chi lavora con me. Eppure…» Dica. «Eppure faccio i conti quotidianamente col menefreghismo, la sciatteria, persino i dispetti. Quello che arriva in ritardo e prima di entrare a lavorare chiede anche di fumarsi la sigaretta. Quello che spacca quattro bicchieri e si offende se glielo faccio notare. Quello che questo lavoro non l’ha mai fatto e pretende di essere pagato come uno che sta in sala da vent’anni e che sa come si alza lo scontrino medio. Io un po’ subisco e un po’ reagisco, ma alla fine l’hanno sempre vinta loro, perché sanno che non posso permettermi di restare con nessuno in sala».
Nuove esigenze
E poi ci sono loro, le gambe su cui cammina tutto quanto: i 567mila dipendenti (ultima statistica Confcommercio) senza i quali gli 82 miliardi di incassi del settore non esisterebbero. E anche qua c’è dentro di tutto: da chi ha scelto davvero questo come il lavoro della sua vita a chi a un ristorante ha bussato per mantenersi agli studi. O per pagarsi un lungo viaggio come G., che ha vent’anni e lavora nella pizzeria di una catena che va per la maggiore: «Gli ho detto subito che sarei stata per poco. Mi hanno proposto un mese di prova e poi un contratto da stagista, ho accettato» Lavoro duro? «All’inizio molto faticoso, adesso ci trovo persino dei lati divertenti». Parliamo di soldi. «A me va bene così, anche se quando faccio i conti e scopro quanto guadagno in un’ora di lavoro non sono felice. Ma se penso ai miei colleghi che con questo stipendio ci devono vivere mi domando come sia possibile».
Bella domanda, G. D’altronde sullo sfondo della storia c’è una giungla sindacale dove per lo stesso lavoro esistono ben trentadue contratti collettivi di lavoro firmati da sindacati diversi (compresi i sindacati fantoccio), e ogni titolare è libero di applicare quello che più gli aggrada. E poi si stupiscono se non trovano camerieri. Pardon, salisti.