Quando vado in giro, soprattutto quando sono solo, per lavoro, per aeroporti, stazioni dei treni, dei pullman, mentre mi sbatto da una parte all’altra di Roma in macchina, e mi fermo a prendere un caffè, un pezzo di pizza, un tramezzino, mi piace sempre, forse per spezzare il rumore bianco della solitudine, fare due chiacchiere con chi lavora, se non c’è troppa gente ovviamente, senza essere un ingombro, spesso dopo aver contemplato le vetrine con le piadine a sei euro, i sandwich a otto e novanta, i quadernoni degli ingredienti, i cartelli con scritto Cercasi personale che ci sono sempre più spesso, nei bar, nelle pizzerie, nei ristoranti, e magari chiedere che cosa offrono, che tipo di impegno occorrerebbe.
Le confessioni di chi lavora
Sei tu interessato? No una mia amica, oppure semplicemente dire all’aria: «Voi lavorate un sacco, eh». Ma non è nemmeno un modo per attaccare bottone, solo un minimo riconoscimento del fatto che non siamo due estranei assoluti, o due funzioni, ognuno con i suoi codici standardizzati dalla customer care, io cliente e il tizio o la tizia al bancone, spesso persino costretta a usare certe formule prestabilite dalla catena per cui lavora, tipo «Con il caffè vuole anche un cornetto?», «Prende anche una bottiglietta d’acqua?», e quindi chiedo: «Quant’è che lavora lì?», «Ma non si stona con tutta quella musica a palla sempre (c’è ovunque musica altissima nei locali, radio commerciali ma anche schermi con video musicali che passano pompati da casse sparse)», «Ma quanta gente passa?»; così gli chiedo: «Ma a che ora chiudete, Ma che turni fate?», e le persone mi rispondono, una cosa ho imparato da mio padre che nella stessa azienda ha cominciato da operaio e poi ha lavorato in ufficio del personale.
Basta poco per capire
Alle persone piace parlare del proprio lavoro, non solo se il lavoro è la loro vocazione, non solo se lo sono scelto, ma anche se lo stanno subendo, se è soltanto il modo per pagarsi le bollette e l’affitto; e ogni volta che faccio queste domande che diventano chiacchiere e quella cortesia artificiale (la gentilezza con il cliente) scema e si addolcisce in una confessione semireciproca, e io vengo a conoscere cosa vuol dire lavorare nei bar, nelle catene di street food, in città identiche e diverse, Napoli al centro, a Acerra, a Rimini, a Torino, a Isernia, in provincia di Verona, in un paesino vicino Lecce, a Tiburtino, Rione Monti, Piazza Fiume, Isola, piazza Duomo, nei posti dai nomi bisillabi pseudoindustriali, Tornio, Banco, Quadro, Tubo, e mentre sulle pareti i menu con i Qr fioriscono frasi da storyelling, concept innovativi, entertainment della gastronomia, tramandare nel mondo la cultura umbra: e invece sono tutte storie molto simili.
Orari assurdi
«Quanto lavori?», «Sarebbero quaranta ore ma ne faccio sessanta», «Guarda io ho una laurea in storia dell’arte ma ho bisogno di lavorare e sto aspettando il concorso a scuola, ho un dottorato in chimica e intanto, ho un contratto ma mi mette i soldi fuori busta, con il denaro che incasso sto a posto – in un giorno ci fai due miei stipendi mensili –. Arrivo a casa distrutta, ma c’ho tre figli, più mio marito che ce n’ha due, anche lui lavora nella ristorazione».
Dal racconto all'incubo
Ed è come se ognuno di questi racconti contribuisse a comporre un genere, come “Cameriera” di Sarah Gainsforth, come le storie raccontate da Francesca Coin in “Le grandi dimissioni”, come in “La porca miseria” di Cash Carraway, o in “Carne viva” di Merritt Tierce, ed è una piccola epica di riduzione di sé stessi a un corpo stanco e alienato, costretto a passare più tempo dietro a un bancone che con i propri amici e figli, nell’ideologia, dell’aperto sempre, delle file interminabili di turisti, del servizio anche di notte, della fame chimica di chi ha scelto di avere questo come unico desiderio, dalle 21 alle 4 tutti i giorni, venerdì e sabato dalle 21 fino alle 5 o alle 6, domenica dalle 6 alle 4, meno di mille euro, un po’ più di mille euro, mille e duecento euro, con i buoni pasto, senza buoni pasto, con la divisa che devi portarti da casa, i sorrisi forzati, le ore pagate quanto mezzo spritz: e lo guardi mentre te lo serve simpatica, e ti chiacchiera, e ti senti giustamente una merda, come se potessi scomporre il contenuto del bicchiere in due parti, la soda e l’alcol, come lavoro e stanchezza, lavoro e pluslavoro, gentilezza e bestemmie tirate nei sorrisi, futuro e amarezza, in un miscuglio in cui non riesci a sentire più il sapore né dell’uno né dell’altra.