Enrico Crippa: "Nei giovani chef non vedo più il sacro fuoco per la cucina. L'alta ristorazione? In Italia manca il rispetto"

23 Ott 2024, 18:28 | a cura di
Lo chef di Piazza Duomo parla della situazione del fine dining e dei giovani in cucina. “In Francia il ristorante stellato è un orgoglio per le famiglie. Da noi no”

La bicicletta e l’orto. Enrico Crippa è un profilo anomalo nello star system dei cuochi italiani: non ha un profilo social, non fa consulenze. Vive per cucinare. Al primo impatto è timido, a dir poco riservato, c’è chi racconta sia particolarmente severo ed esigente tra i fornelli. Lo intercettiamo tra un’insalata piemontese e una faraona cotta in paradiso in quel di Alba, ristorante Piazza Duomo: Tre Forchette (con 97 punti, il punteggio più alto) e Tre Stelle Michelin.

L'intervista a Crippa e il servizio sui giovani in cucina sono sul numero di ottobre del Gambero Rosso, in edicola

Enrico Crippa è appena tornato da una vacanza in Francia, partiamo proprio dalle sue riflessioni in giro tra i migliori ristoranti d’Oltralpe...

Cosa ha riportato in valigia?

Una riconferma. Sono stato in 4-5 ristoranti stellati: tutta la clientela seduta intorno a me era francese. Che bello vedere queste tavolate con intere famiglie del posto che celebravano una ricorrenza. C’è questa usanza di recarsi nel ristorante più vicino di livello per ritagliarsi di tanto in tanto uno spazio di tempo dove godersela in pieno. Origliando tra i tavoli ho toccato con mano quest’orgoglio francese che loro hanno. Questo senso di rispetto per l’alta ristorazione a noi manca del tutto.

Anzi, lo scollamento con il fine dining sembra in forte crescita.

Noi abbiamo una clientela molto internazionale, gli italiani li vediamo giusto in bassa stagione. E non ho quasi mai tavoli superiori alle 4 persone. C’è sempre stato questo senso di distacco: la paura che non ti diano abbastanza da mangiare, o che tu abbia bisogno di cuffie e super poteri per capire il piatto che hai davanti. E siamo sempre così lamentosi. Andiamo fuori per il piacere di trovare qualcosa che non va. E non per stare bene.

Da cosa deriva questo aspetto molto italiano?

Difficile da spiegare. Anche i francesi, parlo degli chef, sembrano tuti amici e molto legati, poi sotto chiaramente non è così. Però hanno in comune questa idea di aggregazione, hanno dentro questa sensazione di far parte di una grande nazione. E la cucina è una parte integrante di questa visione di cui andare fieri in tutto il mondo. Come un logo marchiato che ti porti dentro e vuoi esporre.

Ah, questi francesi...

Ero con un amico, lo chef Eric Pras della Maison Lameloise. Parlavamo di prodotti e marchi, gli ho chiesto perché si sono presi il gallo come emblema nazionale. “Perché è il solo animale con i piedi nella merda che continua a cantare”. La risposta la dice lunga, c’è qualcosa di storico dietro. In Francia vai in un paesino da 500 abitanti e troverai una macelleria normale, subito dopo una boucherie che ostenta la terrina di campagna più buona premiata a Parigi. C’è questa cultura legati ai lavori, anche tra le professioni ci sono i migliori fabbri, marmisti, cioccolatai. Se fai qualcosa, lo devi fare bene. E se lo comunichi sei ancora più figo.

Enrico Crippa nell'orto. Le foto sono di Letizia Cigliutti

E noi?

Noi non abbiamo mai creduto in noi stessi come gruppo, ma abbiamo straordinarie individualità, caratteristiche che possono anche essere la forza. Ma nel mondo di oggi essere parte di una nazione che può sempre portarti in alto non sarebbe una brutta cosa.

Differenze anche sul fronte vini?

Sì, i grandi ristoranti francesi hanno pochissimi vini stranieri in carta. Le nostre carte sono stracolme di etichette internazionali, c’è sempre tantissima Francia. E tutti a bere francese e dire quanto è buono. E non sempre è così. Di certo, loro quando bevono i nostri vini rimangono sbalorditi dalla bontà perché spesso non li conoscono. Che dire, sono più bravi.

Domanda originale, crisi del fine dining: la state sentendo?

Quest’anno un calo nel settore c’è, in Italia e nel mondo, sia nell’alta ristorazione che nelle strutture alberghiere di lusso. Per me la discriminante è chiara: quanto è grande l’emozione che dai nel tuo fine dining? Quanto è unica, personale, qual è il tuo potere attrattivo? Noi abbiamo la fortuna di una terra come le Langhe con una tradizione culinaria incredibile, vini amati in tutto il mondo e un prodotto unico e raro come il tartufo che ha un potere strepitoso. Come numeri abbiamo avuto qualche cliente in meno, ma è cresciuto lo scontrino medio. Di certo, tutto il mondo asiatico si è un po’ fermato, molte persone vivono nell’incertezza di cadere dentro in una crisi economica inaspettata. Senza considerare le influenze delle guerre in corso, vedo un atteggiamento cauto, attendista.

Ha paura?

Sì, perché il fine dining è tutta la mia vita. A me piace cucinare, mi divertirei anche con una trattoria ma non riuscirei mai a trasmettere oltre al buon cibo anche un pensiero, una filosofia, un gesto. Che può anche non essere legato a un esercizio tecnico, una cottura, un taglio: parlo di un testo tuo anche solo nel disegnare un piatto. Quel farti ritrovare un ricordo che avevi messo via. C’è tanto dietro un’esperienza fine dining.

L'antipasto dell'orto di Enrico Crippa a Piazza Duomo di Alba (CN)

Sì, ma tante esperienze sono ripetitive, se non noiose.

Vero, alcuni si concentrano solo sulla materia prima, prendo il meglio e te lo butto su un piatto. Ecco, questo non basta più. Il cibo è cultura, intelligenza. Storicamente si è mangiato meglio dove c’era grande cultura, penso al bacino mediterraneo: i greci, i romani, la spagna, il mondo arabo. Ripeto, sicuramente una flessione c’è, ma contestualizziamo: in Italia non è mai nemmeno davvero esploso il fine dining. I ristoranti a quel livello sono sempre stati frequentati in gran parte da stranieri.

Italiani mammoni e da trattoria?

Siamo sempre stati abituati e felici nella trattoria dove conosciamo quello che ci viene dato da mangiare. Abbiamo un metro di giudizio che è la nostra famiglia, la mamma, la nonna, il nostro territorio. E non è solo una questione di prezzo, anche perché oggi ci sono trattorie che picchiano duro. Ma è saltato un protocollo, un certo modo di stare a tavola.

 Le piace il termine fine dining?

No.

Ristorante stellato?

Nemmeno. Dobbiamo trovare un nome nuovo: cucina d’autore? Parliamo di eccellenza culinaria? L’importante è diversificare l’offerta, tirare fuori una personalità in cucina, la caratteristica che si deve riscontrare quando si va nei nostri ristoranti. La cucina deve essere tua: l’assaggi qui ad Alba e da un’altra parte non la ritroverai. Perché sì, spesso è davvero troppo simile che tu sia in montagna o al mare.

E finiamo a mangiare lo stesso baccalà, dello stesso fornitore o il polpo sottovuoto.

Riuscire a essere originali nel quotidiano, ma anche nella settimana o nel mese è difficile. Devi stare sempre sul pezzo, è faticosissimo. Noi lavoriamo con tanti fornitori vicini, anche piccolissimi. Per dire, la faraona che ha mangiato è di un allevatore che sta qui accanto, con quanto mi dà ci posso fare solo 30 clienti, già so che il giorno dopo devo trovare un’alternativa. Io lo trovo bellissimo. Torniamo alla cucina di marché, di mercato, quella che ti mettevano in testa negli anni ’80.

I menu tutti uguali abbassano rischio e fatica?

Io non potrei avere un menu che parte da gennaio e arriva a dicembre. Non riuscirei a farlo, non saprei come impegnare i miei giorni. Ho bisogno di stimoli nuovi. Oggi tirerò su dal nostro orto 150 porri grossi come una matita, poi dovrò aspettare altre due settimane per riaverli. Dovrò essere pronto e sveglio: cosa ci metto vicino? e dopo? Sicuramente dovrò già pensare a come cambiare la salsa di accompagnamento. E dovrò spiegare il lavoro a 20 persone.

Qualcosa sta cambiando?

Già vedo la mia brigata, si guardano: “Cazzo, domani dobbiamo cambiare anche questa”. Man mano che passano gli anni vedo un fuoco sempre più debole nelle brigate giovani. Magari dobbiamo accenderlo noi. Io vado forte tutti i giorni e tutti i giorni do stimoli, ma il fuoco negli occhi che vedevo 10 anni fa, quando c’erano qui Donato Ascani, Gabriele Boffa, Domenico Marotta o Antonio Zaccardi, non lo vedo più. E se non vedo il fuoco, io che lo alimento perdo anch’io di forza. Soprattutto se non vedo che quello che insegno viene interiorizzato e ritrasmesso. Anche durante il servizio: io correvo, mi bruciavo, impazzivo se vedevo qualcosa di nuovo. Oggi si prova fastidio a fare cose nuove.

E quindi fornitori tutti uguali e zero cotture a rischio. Insisto sui fornitori.

Se metti sempre quel prodotto, sarà sempre facile da gestire, sia se fa caldo che se fa freddo. Sarà sempre la stessa ricetta. Io, se so che una faraona ha mangiato diversamente, cambio cottura, bilancio l’umidità. Poi capisco che uno chef possa avere mille impegni, consulenze, ricette passate per mail. Tutto questo ti porta a essere più sicuro, saprai sempre che quella carne cotta in quel modo sarà perfetta. Zero fastidi e problemi.

Torniamo sull’asse Italia-Francia. È chiaro quanto sia importante il volano gastronomico per il turismo?

Io ho tanti amici in Francia che sono stati anche sostenuti dalle municipalità. In un paese sapevano ad esempio che c’era un ragazzo di talento e gli hanno concesso gratuitamente uno spazio gratuito per avviare la sua tavola. E per valorizzare la zona. Per un tot di anni non ha pagato l’affitto, parliamo di un piccolo castello. In Italia se dici cose del genere ti prendono per pazzo.

A proposito di sentire comune, ad Alba c’è anche chi la vede con sospetto invece che come una risorsa.

Io sono arrivato qui in punta di piedi. Gestisco la mia vita al ristorante, sono riservato. Sento tanto affetto intorno a me. Certo, poi c’è il ciclista che non è mai stato da me e mi ferma alla fontanella per rimproverarmi che me la tiro. In Francia, se il tuo ristorante è prestigioso e richiama gente, è un qualcosa in più nella reputazione dei tuoi compaesani.

A proposito dell’orto, oggi se non ne hai uno da elencare nel menu sei out?

Ne sono contento. In tutta Italia c’è chi lo fa seriamente e chi per moda. L’Italia è il paese delle verdure, lo stiamo finalmente riscoprendo. Per anni le verdure si sono mangiate solo nelle trattorie perché avevano l’orto vicino, nei fine dining si è affacciata con un ruolo diverso solo negli ultimi 15 anni, prima la situazione era tristissima. Certo, è più difficile lavorarla e cuocerla. Ci sono verdure che vanno appena cotte, altre appena crude: è veramente un mondo. La bellezza? Hai sempre in mano qualcosa di vivo, la parte della radice ancora viva, quando la rimetti in acqua è come se tornasse viva un’altra volta. Una proteina animale quando è morta è morta. Noi siamo stati tra i primi a pensare a un nostro terreno con una serra importante. Devo ringraziare la famiglia Ceretto, l’anno prossimo facciamo 20 anni: è stata una crescita totale.

Una verdura poco valorizzata?

Sono diverse. Dovete provare il cece fresco, da sbucciare come i fagioli. Rispetto alla versione secca sa meno di ferro, è particolarissimo. Quando l’ho messo in carta sono impazziti perché non avevano mai provato nulla di simile, con crema leggera di patate ed essenza di pomodoro. La cottura è velocissima, rimane croccante ma poi si scioglie sul palato. Lavoreremo con una varietà di cavolo nero che stranamente dà il massimo nei mesi più caldi e proveremo le lenticchie fresche. Ma il cece fresco mi fa impazzire: un cucchiaio di felicità.

La seppia. omaggio al pittore Anselm Kriefer

Nell’ultimo menu “la seppia, Omaggio al pittore Anselm Kiefer”, è stato un colpo di fulmine. Al tavolo abbiamo sorriso contenti a lungo. Com’è nato il piatto?

L’avevo pensato per la stagione invernale, quindi con i cardi. Poi sono passato a lenticchia gialla, patate e acciuga. L’idea è trasformare e riprendere le forme e i colori del quadro, giocare con quel beige sporco e riportare il tutto nel piatto. Schiacciamo al vapore la seppia per crearne una pasta, le tre salse sopra ricordano una bagna cauda con materia lattica. C’è un aspetto di territorio, d’altronde qui nel nord-est si è sempre mangiata la seppia con il nero. Accompagna una polenta bianca con una salsa di tentacoli di seppia, colorata con il nero delle sue sacche. La ciotola d’inchiostro nera accompagna il piatto e per me è come il calamaio: eccola servita, la pittura di Anselm Kiefer.

linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram