C’è stata l’èra della scodellona di spaghetti, quella che evitava l’horror vacui tanto aborrito dall’italiano medio, cresciuto nella religione del “se famo du’ spaghi”, dove il due non andava preso troppo alla lettera. Poi c’è stata l’era del nido – ancora pochissimi anni fa - tutto un lavoro di arrotolamento attorno a un forchettone all’interno di un mestolo per deporre nel piatto un vortice di pasta lunga, ma i più pigri si servivano di un coppapasta, accessorio che conobbe gloria repentina nelle cucine casalinghe. Di solito in cima alla cupola più o meno brunelleschiana si deponeva la cuspide verde di una foglia di basilico, orgogliosamente esposta a venti e intemperie. Questo è stato figo per un po’, poi in chissà quale momento qualcuno ha deciso che non lo era più: era arrivata l’èra del siluro, un salsicciotto di spaghetti, tagliolini, bucatini languidamente sdraiato su un lato nel piatto, mi si nota di più se vengo e mi metto da un lato. Chi non lo fa peste lo colga. Anzi, pasta lo colga.
Come Paolina sulla chaise-longue
L’impiattamento vive di mode, mastercheffeggia la nostra vita. Non c’è ristorante fine dining, fateci caso, in cui la pasta lunga non venga proposta nel piatto piatto – che non è una ripetizione, ma semplicemente il contrario del piatto fondo - come una Paolina Borghese coricata nella sua chaise-longue. E come sempre accade, la tendenza trova proseliti anche nei ristoranti di medio cabotaggio e perfino in qualche trattoria di quelle con qualche uso di mondo. Anche a casa, i cuochi dilettanti si dilettano. Su Youtube è pieno di tutorial che spiegano come fare per ottenere il risultato. Una settantina di grammi di spaghetti, anche meno, viene arrotolata con gesti sapienti attorno a una lunga pinza e poi, aiutandosi con le dita, fatta accomodare su un lato di un piatto molto ampio, una trentina di centimetri di diametro cercando di non macchiare il piatto, e nel caso pulendo qual che c’è da pulire.
Scarsa quantità
Naturalmente dietro questa ginnastica posturale dello spaghetto si nasconde una progressiva diminuzione della quantità di carboidrato servito, ciò che rappresenta una violazione dello statuto della pastasciutta, piatto godurioso e abbondante per definizione e refrattario ai bignami. Certo nel fine dining, dove il “primo” è di solito collocato a metà strada di un percorso assai lungo, uno spaghetto in versione cortometraggio è quanto mai opportuno. Ma quando sei in trattoria per te, cliente a panza semivuota, è tutto un vorticar di scatole, oltre che di forchette.
E il resto del piatto?
Che poi, si pone anche il problema di come riempire lo spazio lasciato vuoto dalla ritrosia dello spaghetto sdraiato, una doppia uso singola gastronomica. Ecco quindi salse e salsine disposte a strisce o a sbaffi o a tondini, elementi crunchy (guai a chi non pensa al crunchy, sarai mica matto?), qualche tocco vegetale. Cose messe lì, a volte senza una logica, per vedere l’effetto che fa. Perché il vuoto va evocato ma non praticato davvero, il piatto è una tavolozza da riempire, e se l’attore protagonista si fa un po’ da parte tocca ai comprimari, qualcosa bisogna comunque fare, il piatto bianco sgomenta e fa povertà. Ma il rigatone, alla fine, non trovate che sia un’ottima idea?