Per raccontare la storia di Giuseppe Oliva bisogna partire dalla Sicilia degli anni '40, quando la sua famiglia ha cominciato ad avere a che fare con grani e farine, oppure dal 1978, quando suo padre ha avviato il panificio panificio Da Nanà a Balestrate nel golfo di Castellammare (due Pani nella guida Pani e panettieri del Gambero Rosso), dove ancora oggi Enrico, il fratello di Giuseppe, continua la tradizione familiare, tra biscotti, pani e sfincioni cotti nel forno a legna. Oppure cercare nell'eredità dell'altro ramo della famiglia, nel mulino del nonno materno. Ma è stato un imprinting che si è svelato poco a poco, prima c'è stato l'innamoramento per il mare e gli orizzonti aperti: da ragazzo infatti prende la via del mare: si imbarca sulle navi mercantili, diventa capitano di coperta, seguendo la rotta dal ponte di comando, ma ogni tanto si divertiva a mette le mani in pasta. Fa 6 o 7 anni così, poi a fine 2011 si ferma a Copenaghen. Mette su una ditta di importazioni di prodotti italiani, soprattutto siciliani: «Sono di Alcamo, il paese del vino, dove ci sono tanti produttori naturali». La cosa funziona e rappresenta il suo passaporto per il mondo della ristorazione.

Ci mette poco a entrare in cucina e a cominciare a giocare con lievito e farina, «quando mi sono messo davanti a una impastatrice seriamente ho visto che qualcosa nella mia testa è scattato: era una cosa che stava dentro di me, anche se da piccolo non ne volevo sapere». Le cose vanno in fretta e quella professione lo prende. Ne vuole sapere di più: «avevo in mano la parte pratica, ma avevo bisogno di approfondire la teoria». Studia, frequenta corsi, va avanti. Conosce Christian Puglisi, mezzo siciliano come lui, veniva dal Noma ma aveva già intrapreso la sua strada con il Relae (oggi chiuso come tutte le altre attività di Puglisi).
«Quando ho sentito che voleva aprire una pizzeria mi sono proposto. Mentre stava finendo Bæst sono andato al Relae per fare esperienza». Insieme sviluppano tutto il progetto: non solo le pizze ma anche la produzione di mozzarella e di salumi, fa esperienza da casaro e norcino, oltre che da pizzaiolo. Ma la sua passione è la fermentazione. Nella pizza il lievito madre è il faro del suo lavoro, al punto che quando pensa sia giunto il momento di mettersi alla prova anche come imprenditore, dopo quasi 5 anni da Bæst, dopo pop up e consulenze in giro per il mondo, si ferma e chiama il suo locale Surt, che significa acido. Acido come la pasta a lunghissima lievitazione alla base dei suoi impasti, acido come il frutto di certe fermentazioni impiegate anche nelle bevande: kombucha, proxy e via ad andare. Il gusto di Giuseppe Oliva è acido.

Apre nel cuore di Carlsberg City, famosa per l'omonima birra, uno spazio ex industriale oggi in piena riqualificazione, ma che quando apre è all'inizio, «siamo stati tra i primi locali ad aprire qui: dovevamo attrarre il pubblico, era la nostra sfida». Inaugura a dicembre 2019, appena qualche settimana e il Covid bocca tutto, a Copenaghen si procede a singhiozzo tra serrate e aperture, «tra una chiusura e l'altra la gente voleva uscire, e questo ci ha permesso di andare avanti: eravamo sempre pieni». Oggi Surt ha da poco compiuto 5 anni, e ha anche uno shop interno ma con ingresso indipendente, e un piccolo wine bar non lontano dalla pizzeria, aperto un paio di anni fa, 20 posti a sedere con focus su vino cocktail e qualcosa di fermentato.

Come va a distanza di 5 anni?
La pizzeria va bene, in questi 5 anni siamo sempre stati abbastanza pieni e ora siamo in fase di crescita, anche perché questa zona questa estate sarà completata, ci sarà ancora più traffico. Da quest'anno infatti saremo aperti 5 giorni a settimana, fino a ora abbiamo fatto sempre 4 giorni, e abbiamo da poco inserito anche il pranzo il venerdì e sabato.
Avete clienti fissi?
Sì, parecchi anche perché il menu cambia a seconda della stagionalità e riusciamo a mantenere viva la curiosità per i prodotti nuovi, anche se poi alla fine la margherita piace sempre, oppure la nostra versione della rianata: in Sicilia la fanno con pomodoro origano cipolla pecorino, filetti di acciuga interi, mentre io con i filetti faccio una pasta di acciughe che metto sull'impasto copro di salsa di pomodoro siciliana, fatta con il pomodoro siccagno per noi ad Alcamo.
Con le materie prime come fa?
Alcune sono locali, altre italiane, la mozzarella di bufala la faccio arrivare dal paestum, da Guffanti, non ho spazio per farla qui. Però faccio dei formaggi freschi, delle conserve latto fermentate, per esempio dei peperoncini fermentati da aggiungere alla pizza, formaggi con kefir; l'impasto che resta lo cuciniamo, facciamo un pane che mettiamo in sale e acqua lo facciamo rifermentare aggiungendo delle verdure, facciamo kombucha, proxies con i nostri scooby, oppure facciamo dei dressing per insalata, lo asciughiamo in forno le verdure usate e le friggiamo per fare delle patatine. Poi dal 2021 facciamo una birra usando il nostro lievito madre in collaborazione con la Carlsberg prodotta in uno spazio che è una specie di museo per fare piccoli progetti artigianali. Mi piace che ci sia un'identità forte al prodotto.
Come si riesce?
Il lievito madre o il forno a legna sono strumenti per dare un'impronte forte al prodotto, in cui la mano dell'artigiano cambia il prodotto. Poi con le pizze più creative e le altre proposte, in pizzeria ci sono anche piatti che a me piacciono, e che cambio durante la stagione e la gente che viene qui a volte la pizza a volte la bistecca.
Che numeri fate?
Arriviamo a fare anche 150 coperti nel servizio serale in alcuni giorni. Abbiamo circa 60 posti a sedere e altri 30 o 40 esterni in estate, ma riusciamo a fare 2 o 3 turni.
Chi sono i vostri clienti?
Sia locali che persone di tutto il mondo che vengono qui da ogni parte del mondo per fare un giro dei ristoranti. Copenaghen negli ultimi 10 anni è diventata una destinazione gastronomica, prima era solo l'Italia o la Francia.
Con quanti collaboratori?
Adesso siamo 11/12 inclusi i part time.
Anche a Copenaghen è difficile trovare personale?
Con il coronavirus c'è stato un calo di interesse per la ristorazione e tanti stranieri sono rimpatriati; è difficile soprattutto trovare camerieri, anche se non quanto in Italia. Ora pian piano stanno tornando per stage o esperienze lavorative, negli ultimi 6 mesi le cose stanno migliorando ma non è come prima.
Come è oggi Copenaghen dal punto di vista della ristorazione?
Da quando sono qui ho visto una grande crescita, il livello del cibo si è alzato molto velocemente, e lo vedo ovunque, anche nei supermercati: quando sono arrivato non c'era neanche una pasta che conoscevo, ora ci sono tutti i marchi. Anche perché tanta gente è venuta a lavorare qui, attratta dal Noma. E come me è successo con tanti altri: Christian Puglisi è stato al Noma poi ha aperto il suo locale, così io sono stato da lui e poi ho aperto il mio. C'è stata un'evoluzione a cascata, e si è costruita così la Copenaghen di ora.
Il Noma però in teoria dovrebbe chiudere a breve...
Per ora hanno tantissime richieste, quindi almeno per il prossimo anno saranno ancora aperti.
Quindi niente crisi?
Della fine del fine dining si parla un po' dappertutto, ma qui c'è sempre stato un approccio un po' diverso, ci sono quelli più classici, tipo Geranium e, altri come il Noma più casual. Questo stile qui sta ancora andando molto bene qui. A me sempre che questo posti qui a Copenaghen sono ancora molto gettonati, anche quelli con una o due stelle. Vedo un calo del fine dining del classico ma non quelli che sono in continua evoluzione, la gente è ancora curiosa. Sono un grande fan del Noma, ci sono sono stato 4 o 5 volte.
Cosa le piace?
Oltre al cibo, il tipo di ospitalità, accoglienza, il fatto che ogni menu si trasforma il ristorante. Nel menu della selvaggina, trovi un cervo intero, il muschio sulle pareti, l'odore di muschio. Il ristorante si trasforma, le percezioni, gli odori, quel che vedi, i suoni in cucina. Quella lì è una parte molto interessante a cui molti non fanno caso. ma io che lavoro nella ristorazione trovo geniale. Il team del noma non è solo René, è come una rock band che segui da tanti anni. E ho visto evolvere, a differenza di altri ristoranti nel fine dining in cui si mangia bene con piatti curatissimi ma a volte sono un po' troppo rigidi.
Questo è un difetto?
Forse per la nuova generazione può risultare un po' noioso, magari alla vecchia generazione piace essere serviti e riveriti ma la nuova non guarda tanto quelle cose, se ti piegano il tovagliolo quando ti alzi, ma la cura di altro. Secondo me oggi quando andiamo a mangiare certe cose non interessano. Penso a come si è cambiata la società, in passato la gente che era abituata essere servita, ora piace essere coccolati, ma in modo diverso. La cosa importante in tutti i settori è adattarsi ai tempi.
Quindi?
Per me è un po' questo che è successo al fine dining: è un po' troppo rigido, siamo rimasti agli anni '90, non adatto al 2025, non nelle tecniche di cucina ma nella parte hospitality. Perché la cucina è andata avanti, i piatti sono buoni, c'è stata molta ricerca, ma nella parte dell'ospitalità non è stato fatto lo stesso lavoro fatto in cucina negli anni, che l'ha trasformata con tecniche nuove. E poi se pensi che devi stare 3 o 4 ore, è npoioso, e devi anche pagare tanto...
Ma dove altro va a mangiare a parte il Noma?
Per il mangiare italiano vado da Boutique Emilia, sono due ragazzi di Bologna, fanno cose classiche emiliane fatte bene. Mi piace perché è una cucina regionale molto identitaria. Oppure vado da Fiskebaren che ha una bella selezione dei vini, è un posto in cui si sta bene, c'è la qualità il pesce è fresco, si beve bene si mangia bene