Perché molti chef non vogliono più avere un ristorante

24 Nov 2024, 10:33 | a cura di
Chef supercool che si ritirano in campagna, star della ristorazione che scelgono la via del catering. In Usa la ristorazione d'autore sembra perdere appeal. Il NY Times Style Magazine analizza il fenomeno

Giovani, belli e carismatici, gli chef – a New York più che in Italia – sono della vere star. Liste d'attesa infinite per i loro ristoranti, pubblico (pagante) adorante, fan accaniti e una familiarità con vip di mezzo mondo. Accostano più a un divo del cinema o del rock che a un cuoco. Eppure questo mondo patinato pare mostrare delle falle, attraverso le quali sembrano scivolare via alcuni dei nomi più interessanti del panorama. Sono storie diverse, ma che convergono tutte nel finale, l'addio alla ristorazione. Lo racconta sulle pagine del New York Times Style Magazine, Frank Bruni professore di giornalismo e politiche pubbliche alla Duke University e critico gastronomico. Analizza un fenomeno che ha diverse matrici, ma tutte raccontano di questo allontanamento non in massa ma decisamente consistente dalla scena.

Comincia il suo racconto da Seamus Mullen, ex it boy newyorkese che calcava la scena di quelli che contano come un attore navigato, con locali frequentatissimi anche da gente come Beyoncé e Jay-Z, come Boqueria, Suba, Tertulia. A un certo punto, nel 2019, gira i tacchi e se ne va, direzione Los Angeles, sceglie una vita all'aria aperta in una fattoria e lontana dalle catene dell'alta ristorazione: «ha scoperto che uno chef può fare e guadagnare molto senza lavorare dalle 90 alle 100 ore alla settimana». Non sta con le mani in mano: ha lavori di consulenza, contratti di sponsorizzazione, progetti educativi e un servizio di consegna di pasti proteici salutari basati sul suo libro di cucina del 2017, Real Food Heals. Niente più vip al suo tavolo, niente più stelle e mostrine da appendere alla giubba, niente più gloria. Di quella vita non rimane nulla, neanche la nostalgia. «L'ultima cosa che farei ora è aprire un ristorante», dice. Come lui ci sono molti altri cuochi pieni di talento e glamour che si ritirano dalle scene. «Fermi tutti, voglio scendere». E loro sono scesi, insoddisfatti da un lavoro che finisce per sovrapporsi alla vita per intero, sempre incerto ed esposto alle intemperie della moda, alle insidie di un'economia instabile, al logorio di una adrenalina bruciante. Esistono altri modi per occuparsi di cucina, altre strade per esprimere la propria creatività, altre possibilità più semplici e vivibili. Samin Nosrat, per esempio, è diventata famosa in tutto il mondo con il libro (poi serie Netflix) Salt Fat Acid Heat del 2017, e non ha mai pensato che sarebbe diventata la nuova Thomas Keller; oggi, a 44 anni, ha la sua strada, lontano dal pass: «Non è necessario essere il volto di un ristorante con i clienti», spiega. Le storie di Julia Child, James Beard, Ina Garten, e Martha Stewart lo confermano. Esistono molti altri palcoscenici oltre a quello stretto tra le 4 mura di un ristorante: canali tv e social network, che hanno una platea molto più vasta e offrono spazio ai cuochi, non chef di brigata, ma ugualmente soddisfatti, senza neanche lo stress di dover presentare ogni sera piatti identici e perfettamente eseguiti a intervall cadenzati. A volte (ma non sempre) il ristorante arriva come conseguenza di un successo che si è sviluppato altrove, un altrove  che ora pare acquistare sempre più credito tra i professionisti della cucina, appagati anche nella loro creatività oltre che nel conto in banca.

Danny-Meyer

Danny Meyer

La questione immobiliare

I ristoranti occupano una frazione minore di immobili rispetto al passato e in zone meno centrali e visibili, dice Frank Bruni. Da noi ancora questa inversione di tendenza non si è verificata, e ancora le attività di somministrazione paiono colonizzare le strade di molte città, ma sappiamo bene come la Grande Mela possa rappresentare un'anteprima del nostro futuro prossimo, e con questa proiezione di fronte agli occhi sarebbe bene fare i conti. In questo bilancio il Covid ha influito molto, cambiando le abitudini di una fetta di clientela, così come influisce il panorama complessivo che ha portato a un aumento del costo del cibo e degli affitti, che si aggiunge a un miglior trattamento (anche ma non solo) economico per i lavoratori del comparto. La conseguenza – analizza ancora Bruni – è che oggi una porzione di pollo da 40 dollari, una cifra consistente anche per New York, potrebbe generare al ristoratore un profitto appena sufficiente per mandare avanti il ristorante. «Nessuno è contento», commenta.

Tanti grandi ristoratori, interpellati da Bruni, ammettono che non proverebbero nemmeno se dovessero cominciare ora: lo dicono per esempio Stephen Starr (più di tre dozzine di locali, tra cui Le Coucou a Manhattan e Le Diplomate a Washington) e Joe Carroll (suoi Fette Sau e la steakhouse St. Anselm a Williamsburg). Carroll, 53 anni, fa il conto: per il suo St. Anselm nel 2010 ha speso circa 260.000 dollari, ora sarebbero da tre a quattro volte di più, e l'affitto di Fette Sau è passato 4.200 dollari al mese nel 2007 a16.500 dollari. Tutto questo senza contare il gruzzoletto necessario per resistere prima di andare a regime: secondo Danny Meyer possono servire fino a 10 anni per rientrare dell'investimento, un tempo lunghissimo in cui si è esposti alle intemperie della sorte (e la colonna di Eater NY sulle chiusure del mese la dice lunga), bisogna essere attenti al millimetro, per esempio anche «far timbrare in anticipo il cartellino a qualche lavoratore in un servizio di cena più lento» può fare la differenza. In questo panorama molti sono scoraggiati dall'iniziare, molti altri hanno ceduto le armi, come Anita Lo, la chef proprietaria di Annisa – mix made in Usa con tecniche francesi e influenze asiatiche - nel West Village, chiuso nel 2017 dopo 17 anni di successi (con tanto di supervisione a una cena di stato di Barack Obama con il Presidente cinese Xi Jinping): i costi sempre più alti e l'impossibilità di alzare i prezzi (frutto di una politica di non prelievo per pagare più equamente lo staff, spiega) sono stati letali.

Personal chef

Gli altri lavori della cucina

Ora Lo lavora per una società che organizza tour per far scoprire le tradizioni alimentari dei vari paesi, attraverso visite a ristoranti e sessioni di cucina: è «il lavoro migliore del mondo», dice. Ha un rapporto più intimo con i clienti, ma anche tempo libero da impiegare come preferisce. Una cosa impensabile. Il Covid è stato un punto di svolta, ma di questo si aveva già qualche avvisaglia, quando nel mondo della ristorazione si è cominciato a parlare di bilanciamento vita-lavoro e di benessere mentale, come segnala Andrew Friedman, autore di libri e podcaster (Andrew Talks to Chefs). Un altro dei fattori che ha portato all'esodo dai ristoranti. Molti cuochi hanno preso la strada delle cucine private, diventando personal chef (mentre un tempo le cucine private portavano a quelle professionali, ora la direzione si è invertita). Brandon Hoy, ristoratore con una dozzina di insegne al suo attivo, conta una quarantina di chef passati per il suo gruppo e oggi diventati cuochi privati. I catering e gli eventi pop up rappresentano altre possibilità in cui dare sfogo alla propria creatività, alla fantasia, al talento. Il punto non è necessariamente il guadagno a fine mese, ma la qualità della vita, la possibilità di non essere costantemente sotto i riflettori e uscire dal circo mediatico. Se poi si fa parte dell'Olimpo della ristorazione si possono firmare ristoranti in hotel o aeroporti, senza dover presiedere se non saltuariamente, oppure fare consulenze: in una grande città si paga tra i 15.000 e i 25.000 dollari per sviluppare al massimo una dozzina di piatti, insegnarli al personale di cucina e implementare i sistemi per la loro produzione: una cosa che richiede un mese o due di lavoro part-time, a fronte di cifre tra i 100.000 e i 225.000 dollari all'anno per un executive chef.

David Chang

Alex Guarnaschelli è l'executive chef del Butter, ma non è sempre presente come un tempo, e ora si dedica principalmente a libri e tv, c'è anche chi presta il suo nome a prodotti confezionati (come nel caso di David Chang che oggi associa l'ormai chiuso Momofuku a condimenti, spezie, e altri prodotti per cui si fa garante di qualità). Mentre David Waltuck, chef proprietario del famoso Chanterelle dal 1979 al 2009 qualche anno fa si è trovato a fare da trainer per un mese a un attore per una serie Tv. L'attore era Jeremy Allen White, il programma inutile dirlo, The Bear.

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