“Se le cose sono migliorate ora? Assolutamente no” dice deciso Jianguo Shu proprietario di Dao. Uno dei primi ristoranti cinesi, a Roma, ad alzare l'asticella della qualità puntando su una materia prima selezionata e su una cucina cinese ricercata e autentica. “Anzi” aggiunge “ora che il virus è arrivato in Italia, le persone hanno più paura di uscire e di mangiare fuori, tanti ristoranti cinesi hanno chiuso”. Loro, da qualche mese, stanno facendo serate a tema e cene a più mani, che hanno attirato l'attenzione non solo degli amanti della cucina orientale, ma di quella che – con una formula non troppo felice – viene chiamata clientela gourmet, fatta di addetti ai lavori e appassionati. “Nonostante queste serate che attirano un certo pubblico, lavoriamo poco: una decina di persone, poco più, e anche a pranzo facciamo pochi coperti. Va meglio il venerdì e il sabato, ma siamo comunque alla metà del solito, mentre durante la settimana i numeri sono molto bassi”.
A fare una indagine tra i ristoranti cinesi in Italia emerge un quadro poco confortante. Se da una parte la diffidenza verso di loro sembra essere passata (almeno per alcune insegne di maggior appeal verso il pubblico), dall'altra soffrono assieme agli altri della difficoltà che colpisce tutto il comparto.
“Non sono solo i ristoranti cinesi ad avere problemi, ora” commenta Stefano Dai, di Fulin, a Firenze “ma tutti. Inizialmente il lavoro è diminuito di un 50-60%, nelle ultime settimane è peggiorato tantissimo: da noi siamo all'80-90% in meno. Allora” continua “a fine febbraio abbiamo deciso di chiudere e aspettare che passi questa situazione, per la sicurezza dei clienti e dei nostri collaboratori e così stanno facendo la maggior parte dei locali cinesi”.
L'alta ristorazione cinese
Da un certo punto di vista, il diffondersi del virus ha assottigliato, se non cancellato, le odiose differenze tra “noi” e “loro”, eliminando o spostando repentinamente il confine: non più alieno, il Covid-19 interessa tutti, non riguarda più “l'altro”. Dal punto di vista commerciale, nel settore della ristorazione, più che una differenza legata al tipo di cucina, è il livello a fare la differenza, con i locali di fascia alta che, almeno nella prima fase dell'emergenza, hanno potuto godere di una maggiore vicinanza della loro clientela. Poi, come ogni allerta, si vive di fasi e di cambiamenti. Con l'obbligo di ricalcolare e rimodulare, ormai quasi quotidianamente, decisioni e conseguenze.
Appena riaperto, Gong, dopo qualche giorno di chiusura precauzionale “Ci siamo attenuti alle ordinanze emesse dalla Regione Lombardia” spiega Giulia Liu “e ora che abbiamo riaperto stiamo facendo la giusta formazione al personale, per garantire la massima salvaguardia nostra e dei clienti”. Il locale, seconda insegna della famiglia Liu (insieme a Iyo, Ba Asian Mood e all'ultimo nato, l'elegantissimo Iyo Aalto) è da sempre frequentato da un pubblico cosmopolita, abituato a viaggiare e a confrontarsi con altre culture, che non si è mostrato diffidente nella prima fase dell'emergenza, quando il Covid-19 sembrava circoscritto alla Cina “perché veniamo percepiti come un locale internazionale. In questa seconda fase” continua Giulia “stiamo risentendone come tutti gli altri ristoranti, italiani o non”.
Il timore del personale in fuga
Diverso il caso di Hang Zou, uno dei più noti locali romani: “Da un momento all'altro sono quasi spariti i clienti” racconta la celebre Sonia, carismatica proprietaria, che continua: “è stato così per qualche tempo, poi le cose sono migliorate, fino a qualche giorno fa. Non appena si sono diffuse le notizie dei focolai in Lombardia, però, si è smesso di nuovo di lavorare, anche se sabato le cose sono andate un po' meglio. Il problema ora però è un altro” spiega “i dipendenti hanno paura e non vogliono venire al lavoro. Sono praticamente in sciopero, qualcuno ha comprato un biglietto di sola andata per la Cina: starà lì fino a quando le cose non si sistemano. Non posso farci niente e senza di loro non posso aprire”. Da oggi Hang Zou è chiuso, annuncia Sonia, fino al 30 aprile. Ma ovviamente non ci sono date certe.
Viaggio nella Chinatown di Milano
Milano (e non solo i ristoranti cinesi) vive una calma apparente: “Le persone sono spaventate da quel che si sente in giro, e poi” commenta Giulia Liu “non si riescono ad avere notizie chiare: leggere opinioni contrastanti da parte degli esperti disorienta le persone. Viviamo il problema giorno per giorno”. Questa la situazione in zona Risorgimento.
Nella Chinatown milanese, dopo La notte delle bacchette, la bella iniziativa di qualche settimana fa, la situazione è irreale. “Paolo Sarpi è deserta” dice Agie Zhou, ideatore della Ravioleria Sarpi, di Nove Scodelle e di Wonton. “Tutti gli esercizi cinesi – non solo ristoranti e bar, ma anche negozi, parrucchieri e altre attività – hanno problemi, moltissimi sono chiusi, sia per precauzione, sia perché molti dipendenti preferiscono rimanere a casa, sia perché in questo momento rimanere aperto è antieconomico. Lo vedo io stesso con la Ravioleria: così poca gente in giro non giustifica un esercizio aperto”.
Dei tre locali di Agie i ristoranti sono in riposo forzato, Wonton riaprirà la prossima settimana, mentre la Ravioleria – piccola e amata insegna di street food, da sempre vessillo di integrazione e multiculturalità – è orgogliosamente aperta “qui c'è un rapporto particolare con i nostri clienti. E poi” continua “stiamo affrontando questa situazione tenendo il aperto perché abbiamo sempre pensato in maniera diversa - diciamo così – progressista. Non vogliamo chiudere, anche se la clientela è diminuita. Ma ormai” aggiunge “non è più una questione di ristoranti cinesi, è tutto il settore a essere colpito e non ci sono più differenze”. Insomma, se una discriminazione c'è stata, legata all'origine del virus - “bisogna escludere l'idea di un virus legato a un paese specifico: la situazione è mondiale” - ora non c'è più “tant'è che le cose stavano velocemente tornando nella norma, fino a una settimana fa, mentre ora è tutto fermo”.
Tra ordinanze e chiusure di altre attività, il turismo e la ristorazione segnano il passo. “Da una parte, però, vedo una grande voglia da parte dei milanesi di riprendere la vita di sempre. Sono convinto che bisogna usare le cautele del caso, che non vuol dire che da un giorno all'altro tutti si chiudano in casa: sarebbe una morte lenta. Ma ci vorrà del tempo per tornare alla normalità”, prevede Agie.
a cura di Antonella De Santis