A Roma, ormai da anni, si è accreditata una versione cremosissima della carbonara, con esponenti di rango e molti interpreti. C'è anche un re, e come sempre, per ogni re c'è una corte. Così se a Roma il re della carbonara moderna – anzi della carbocrema – è considerato Luciano Monosilio, ci sono molte ancelle di questa pasta della tradizione (già, ma quale tradizione?), che operano in ristoranti diversissimi per stile di cucina, fascia di prezzo, ambiente. Perché la carbonara è un piatto ormai diventato un simbolo di molte cose: di romanità, di godimento, di abbondanza, di convivialità. Arriva e strappa un sorriso di goduria, accentua la salivazione e la brama dell'assaggio. Soprattutto nella versione moderna, molto suadente, morbida e piaciona. Quella di cui oggi viene riconosciuta la paternità, come dicevamo, a Luciano Monosilio quando – era il 2012 – la rinnovava spingendo sulla morbidezza nel ristorante di Alessandro Pipero, acceso sostenitore del piatto. Ma la carbonara, con la sua carbocrema pomposissima, ha raggiunto anche apici negativi: la moda romana infatti ha generato molte derive che creme impossibili da mangiare.
Ma se persino The King of Carbonara è pronto ad abdicare – come si legge nelle pagine di Repubblica, dove invita a scoprire altri piatti della tradizione romanesca – cosa rimane di questa ossessione? «Ha perfettamente ragione Luciano» fa Flavio Di Maio. Due ristoranti a Roma, uno a Milano, Flavio è uno dei grandi spacciatori di carbonara in Italia, nei suoi ristoranti ne prepara almeno 120/130 a servizio, lavora 20/25 chili di guanciale al giorno, ordina 360 uova alla volta. Quantità impressionanti, «con il mio socio volevamo anche toglierla dal menu». Per ora è un'idea: come dice anche Monosilio, ci sono tantissimi piatti romani ancora sconosciuti «vogliono tutti la carbonara e magari non hanno mai provato la pasta con il sugo degli involtini».
La mania della carbocrema
Ma perché questa mania? «Non lo so che cosa accade, forse negli anni si è creata questa favola: vengono con aspettative altissime, sei sotto pressione per questa carbonara, e magari hai un sugo di coda spettacolare». Vero, le aspettative. Sulla carbonara ormai sono altissime e tutte vanno nella stessa direzione: la crema. «Credo che la carbonara abbia seguito la cacio e pepe, la vera è quella di Salvatore Tassa, lui è l'unico che la fa nel modo in cui deve essere fatta (ovvero al tovagliolo, sabbiosa, ndr), quella che ti pizzica un po' in gola. Nel tempo purtroppo le cose sono un po' cambiate andando dietro le richieste del pubblico che la voleva più cremosa; la carbonara credo che abbia seguito questa piccola trasformazione del gusto». Ma come deve essere la vera carbonara? «Per me non deve rimanere sul fondo del piatto una quantità di uovo – più o meno cotto – sovrabbondante.
A casa di mamma era una frittatina con un po' di rigatoni intorno, io mi sono spostato sulla versione cremosa, ma con moderazione, ricca sì, ma non troppo». La sua proporzione sono 6 cucchiai di tuorlo a persona; preferisce i rigatoni - «ma alla fine anche lo spaghetto avrebbe un suo perché» - e solo i tuorli da quando ha cominciato a pastorizzare le uova, «ma se ho le uova di Silvia Bambagini, la faccio in modo tradizionale, sono fantastiche». Quella di Luciano? «Beh, buona è buona». Cosa ha di particolare? «Lui fa uno zabaione salato a bagnomaria, non è solo cremosa, è anche spumosa, assolutamente gradevole». La salsa, insomma, è più leggera, lavorata per inglobare aria. «E poi il guanciale, lui lo cubetta in dadini precisi, un centimetro per lato. Con i nostri numeri non si finirebbe più». Da esaurimento nervoso, in effetti.
Le grandi variabili della carbonara
A fare la differenza è la salsa: più o meno liquida, più o meno consistente, più o meno sapida. Può avvolgere la pasta o scivolarle intorno, finendo sul fondo del piatto, può coprirla come una coltre di neve morbida o poggiarvisi come una maionese. La tecnica usata fa la differenza come lo fanno l'uso delle uova intere o del solo tuorlo. Ogni variabile consegna un risultato diverso per struttura e sapore. Difficile dire quale sia la migliore, da laici del gusto possiamo dire che c'è una migliore carbonara quante sono le persone a cui si chiede. In questo piatto il gusto personale ha un ruolo determinante. E a loro volta, nel gusto personale, le mode hanno un peso.
Le carbonare di Roma
Tra gli amanti della via della crema ci sono trattorie moderne, come Menabò dei fratelli Camponeschi, a Centocelle, o Trecca di altri due fratelli, i Trecastelli, o il tempio dei prodotti laziali Dol di Vincenzo Mancino, e l'Osteria di Monteverde, mentre lo storico Pommidoro, a San Lorenzo, tira forte il freno a mano e opta per una robusta rusticità. Il centro, affollato di turisti come di ristoranti, è il bengodi della carbonara: da Armando al Pantheon, una delle roccaforti della romanità, si segue la via della moderazione come fa pure Antonello Magliari, al Grappolo d'Oro di Campo de' Fiori, a poche centinaia di metri da un altro dei grandi luoghi della carbonara, Roscioli, che ne fa una versione (famosissima) di buona cremosità in continuità con l'epoca Nabil Hassen, ex chef che ora la propone tal quale da Baccano a Fontana di Trevi, premiato nella guida Roma e il meglio del Lazio 2024 come uno dei campioni della tradizione proprio per la carbonara.
Sontuosa anche quella de La Ciambella Bar à Vin, a pochi passi mentre, poco più in là ma sempre a portata di passeggiata, c'è Alessandro Pipero, che nel suo ristorante ha fatto da testa d'ariete per l'ingresso della carbonara nel fine dining, proprio con Luciano Monosilio. Il suo è ristorante di grande eleganza in cui lo chef Ciro Scamardella fa una proposta creativa, gustosa, divertente. La carbonara, però, non manca, ormai è un vezzo supercremoso tra piatti come fregula vongole e cocco, o manzo e susina. Tra le trattorie moderne c'è Santo Palato in cui Sarah Cicolini offre una versione di grande carattere. La lista è lunga perché tutti o quasi hanno ceduto al fascino di questo questo piatto, che è un po' un asso nella manica e insieme un banco di prova. Qualcuno l'ha anche trasformata in fagottini, amouse bouche, e altre amenità.
Gli chef stranieri e la carbonara
Neanche chef nati e cresciuti in un altro contesto gastronomico sono rimasti indenni: ricordate le prime versioni di Marzapane e di Bistrot 64? I ristoranti avrebbero preso poi altre direzioni, ma per un certo periodo hanno avuto orgogliosamente in menu anche la carbonara, accanto a piatti più elaborati. In entrambi i casi si trattava di versioni creamy, con la pasta (lunga) quasi annegata nella salsa. All'epoca, una decina di anni fa, scalavano le classifiche di gradimento. Poi – dicevamo – i locali hanno preso un'altra strada. Ma non bisogna pensare che questa mania sia solo in Italia.
La Spagna dei grandi chef ad alto tasso di creatività e tecnologia ha un paio di esempi emblematici: il trio del Disfrutar di Barcellona qualche anno fa presentò I nuestros macarones a la carbonara, con una pasta-non pasta trasparente realizzata con gelatina di brodo di jamon iberico e una spuma calda di carbonara realizzata con uova, burro, panna e poi sifonata. Dall'altra parte della Spagna, nei Paesi Baschi, Andoni Luis Aduriz al Mugaritz ha fatto fermentare degli spaghetti con il penicillium candidum (la muffa del brie per intenderci) per dare l'impatto del pecorino anche senza usarlo. In pieno stile Aduriz, geniaccio iconoclasta, uno che fa porta in tavola piatti bellissimi, talvolta sconcertanti, sapori inediti e riflessioni. Persino sulla carbonara.