Franco Pepe contro tutti. Risponde a ogni accusa ricevuta nel tempo rispedendo le critiche al mittente, in un palleggio teso dal palco di Identità Golose, congresso di gastronomia quest'anno dedicato alla "disobbedienza". E disobbediente Pepe lo è stato, ma per necessità esistenziale. Per conquistare a quella maturità professionale ed espressiva che gli consente oggi, a 60 anni, di rimettere in fila successi e conquiste e togliersi qualche sassolino dalla scarpa.
L'ananas è un ingrediente vietato sulla pizza? «Perché non lo sai usare». Chi non fa tradizione è un traditore? «Ognuno trovi il proprio stile». Risponde colpo su colpo passando in rassegna alcuni dei momenti più importanti della sua carriera, costellata di successi (anche personali, come quando è stato nominato Cavaliere al merito della Repubblica) e di critiche, per mettere a tacere un po' tutti, forte di un riconoscimento internazionale indiscusso, come pizzaiolo, imprenditore e promotore del suo territorio, quell'Alto Casertano che agli esordi della sua seconda vita da pizzaiolo era sinonimo di terra dei fuochi.
Franco Pepe l'apostata
Adesso è meta di un pellegrinaggio costante alla volta di Caiazzo e di Pepe in Grani (Tre Spicchi nella guida Pizzerie d'Italia del Gambero Rosso), nata una decina di anni fa da uno strappo epico: quello con la sua famiglia. È la prima disobbedienza, quella nei confronti dei fratelli, diligentemente documentata nella puntata di Chef's Table a lui dedicata. Lavoravano insieme nella pizzeria di famiglia, dopo la morte del padre Stefano, ma a un certo punto Franco ha deciso che era il momento di prendere la sua strada (come racconta anche nel volume La mia pizza autentica). Il tempo gli avrebbe dato ragione, ma i legami familiari ne hanno risentito, e non poco.
«Era una mia esigenza di crescita» spiega. Come dargli torto, con il senno di poi? In quel momento cresceva l'attenzione sul mondo della pizza, anche l'alta cucina cominciava a interessarsene (come fa ancora oggi: di qualche mese fa la visita di Alain Ducasse a Caiazzo) e Franco sentiva l'esigenza di definire la sua identità, di mettersi in discussione e creare qualcosa di diverso, aveva un suo progetto sul territorio. Voleva smetterla di fare quel che si è sempre fatto e cominciare a fare quel che voleva fare: la sala degustazioni e lo spazio Authentica, le due stanze per gli ospiti e molto altro. Il documentario vede i fratelli Pepe parlare insieme, lasciando intendere che il peggio è passato, ma c'è stato un momento in cui lo strappo sembrava insanabile.
Era sempre stato Netflix, con la prima puntata di Ugly Delicious, a raccontare di un'altra frattura, segnata dalla decisione di uscire dall'Associazione Verace Pizza Napoletana. Il presidente Antonio Pace, a domanda diretta risponde: «È un fattarello molto simpatico, tutti i pizzaioli più famosi oggi sono tutti figli nostri, anche se qualcuno non ci è riuscito bene», l'inquadratura passa a Franco Pepe, gli chiedono se il marchio dell'associazione sia più un riconoscimento del merito o un ricatto, e la replica è sorniona, «Per me esiste solo la buona pizza, dico ai nuovi pizzaioli: guardatevi dentro, createvi una identità di pizza e cercate di offrirla alle persone nel miglior modo». E tutto questo lo ribadisce a distanza di anni nel bel mezzo di un congresso gastronomico, se mai a qualcuno fosse sfuggito quel passaggio. Chi vuol capire, capisca.
Basta foto per favore
E oggi lui che ha contribuito a portare la pizza al centro della gastronomia mondiale – fisicamente e virtualmente – e che viaggia accompagnato da una potente agenzia di comunicazione internazionale, chiede di farla finita con questa spettacolarizzazione. «Dobbiamo fare attenzione, secondo me la pizza oggi è considerata più nella forma che nella sostanza: vedi una bella pizza, con un bel cornicione senza macchie, ma non significa mica che sia anche buona, sana e digeribile». Se si riferisce a qualcuno in particolare non è dato saperlo. Il suo Pepe in Grani conta 3/400 persone al giorno - oltre 11mila persone al mese in una Caiazzo che si è scoperta meta turistica – che significa milioni di foto che vagano in rete. Ognuno è lì a mangiare ma prima ancora a scattare, sono influencer, clienti comuni, blogger, giornalisti e pseudogiornalisti.
Lui che ci ha messo del suo per valorizzare al massimo il pomodoro riccio non ci sta: ha commesso l'eresia di cambiare la regina delle pizze, con la celebre Margherita sbagliata, perché le alte temperature non lo rovinino e invece la gente fotografa e il pomodoro si scalda. La foto viaggia e intanto Franco l'apostata guarda il suo lavoro rovinarsi. La foto magari è perfetta ma il cibo non lo è più. Eppure - riflette - dovrebbe essere quello che si mangia a rimanere impresso nella memoria: «Un'emozione al palato lascia una fotografia nella vostra mente che non si dimentica più». E allora torna indietro e ricorda suo padre: «Di Stefano Pepe nessuno ha mai parlato, non c'erano i social, non c'erano le giacche da cuoco per i pizzaioli, ma la fila davanti alla sua pizzeria era più lunga di quella che c'è da me. La creava quel che metteva nel piatto. Forse è il caso di guardare l'essenza». Arriva armato di una sfoglia sottile da mettere in bocca senza masticarla, chiudendo gli occhi per ricostruire tutti i sapori della pizza a libretto, quella che chiama la pizza di tutti, che vende a 2 euro per mantenere l'identità della pizza come cibo popolare. Dice che è un'essenza, una specie di ostia di pizza. Nessuna foto per favore, come in chiesa.
Foto di copertina: Damiano Errico