I negazionisti della crisi dei ristoranti fine dining

9 Set 2024, 13:06 | a cura di
In tanti puntano il dito contro chi prova a raccontare che oltre alle storie fantastiche e gli innegabili successi, l'alta cucina non vive complessivamente un periodo sereno. Anziché aprire un dibattito, si cerca in tutti i modi di nascondere la polvere sotto il tappeto

Ci sono i negazionisti climatici e quelli della crisi dell'alta ristorazione. Certo, gli argomenti hanno un peso completamente differente (in primo è molto serio, il secondo molto meno), ma lo schema che viene replicato è molto simile. Il contesto è il seguente: i ristoranti cosiddetti fine dining, quelli che il Gambero Rosso premia con le forchette, Michelin con le stelle, quelli con un mucchio di targhe e riconoscimenti sulle vetrine, non se la passano benissimo: se alcuni abbandonano i vecchi stereotipi dell'alta cucina creando format di successo e segnando un cambiamento, molti altri invece fanno fatica a reinventarsi. Andatevi a leggere (o rileggere) quello che l’influente chef del Noma, René Redzepi, continua a ripetere ovunque dopo aver deciso di chiudere il suo ristorante a Copenaghen: «Ho capito che continuando a lavorare come pazzi per tenere il ristorante aperto tutto l'anno, saremmo stati noi a rischiare seriamente l'esaurimento. È un lavoro molto stressante dove tanti arrivano a malapena alla fine del mese». La ristorazione di alto livello, con i suoi orari massacranti (imposti dagli stessi chef come Redzepi) e la cultura aziendale spesso militaresca, ha raggiunto un punto di rottura: «Non è sostenibile», ha detto Redzepi.

I negazionisti della crisi

Sono temi di cui si parla ormai da tempo, non a caso viviamo nell'èra del pluripremiato The Bear, che nonostante qualche inciampo ha saputo raccontare al grande pubblico anche i toni amari della cucina, e del film The Menu, una parodia horror sugli chef stellati trattati alla stregua di divinità contemporanee e sui clienti ultra esigenti. Molta meno risonanza ha avuto invece il racconto (edulcorato) di Chef's Table, la docuserie sul cibo creata da David Gelb che dal 2015 va in onda su Netflix (sono state annunciate tre nuove stagioni). Puntate belle e interessanti, ma che si limitano ad essere una vetrina molto ben costruita.

Ma torniamo ai negazionisti della crisi: in Germania i ristoranti fine dining non se la passano benissimo. È notizia recente che a Berlino ha chiuso il quinto ristorante stellato nel giro di un anno. Ernst si unisce ad altri quattro affermate insegne di alta cucina: Kin Dee ha chiuso a maggio di quest'anno, seguendo le orme di Cordo, NoName, Lode & Stijn (che avevano una stella verde Michelin). Sebastian Frank, chef del ristorante Horváth, due stelle Michelin, ha detto senza mezzi termini che la situazione è davvero grave e che «questo è solo l'inizio».

Porsi interrogativi è proibito

Non sono in tanti a parlarne così apertamente, spesso bisogna leggere tra le pieghe delle interviste e dei comunicati stampa per capire quali sono i problemi. Questo, come altri, è un settore dove porsi interrogativi e avanzare critiche è proibito. È un po’ come il calcio, dove allenatori e calciatori imbalsamati parlano ai microfoni al termine della partita per non dire praticamente niente. Per di più, c'è poi un certo numero di critici gastronomici, giornalisti o cosiddetti esperti del settore che sostengono che le linee di frattura su cui iniziano sempre più a interrogarsi i grandi ristoranti non esistano. Chi le racconta fa allarmismo, si inventa tutto, vede ciò che non c’è. Anche in questo caso quasi nessuno si prende la briga di scriverne apertamente se non strombazzare sulle proprie bacheche Facebook. "Il fine dining non è morto!", scrivono postando foto di piatti principeschi a dimostrazione che l’alta cucina è viva e vegeta.

Apriamo un dibattito

Ma chi l'ha detto che il fine dining è morto? Il punto è che non si capisce che utilità abbia negare la crisi di un modello che potrebbe (e diciamo potrebbe) non funzionare più come qualche decennio fa, costruito su ritmi disumani e stipendi spesso inadeguati, come si può non prendere atto che gli obiettivi sono cambiati, e in alcuni casi anche i gusti dei clienti non sono più quelli di prima. L'inflazione massacrante pesa anche su chi era abituato a spendere molto per mangiare. Lo dicono gli chef, sottovoce, ma lo dicono. Sicuramente le difficoltà sono più legate al modello piuttosto che al gusto. È una crisi di struttura non di identità. Alcuni ristoratori lo hanno capito, altri no. Negare questa palese evidenza mettendo foto di piatti stellati ed elogiandoli per la loro unica, incredibile, irripetibile creatività e gridare al complotto non aiuterà di certo gli chef a capirci qualcosa. Aprire un dibattito, invece, interpellare esperti e professionisti, anche al di fuori del settore, può essere utile per tutti. Il moderno modello di ristorazione raffinata che grandi chef come Redzepi hanno contribuito a creare potrebbe non sopravviverà per sempre. Lo ha detto lui stesso, che infatti ha deciso di chiudere e aprire saltuariamente con dei pop-up: «Questo modello, finanziariamente ed emotivamente, come datore di lavoro e come essere umano, semplicemente non funziona».

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