Il ragoût, come si intuisce dal nome, nasce in Francia, ma le prime versioni seicentesche erano molto diverse da quelle attuali. Si trattava di intingoli fatti con ingredienti pregiati come funghi, tartufi, animelle, creste di gallo, fegatini, fondi di carciofo, fette di limone e così via, preparati con un fondo di ortaggi e legati con burro e farina. Esistono decine di ricette di questo tipo usate per insaporire arrosti e stufati di carne come le “Pollastre in ragù”, la “Spalla di vitello in ragù” o la “Lingua di maiale in ragù”.
Nel XVII secolo la nuova moda francese del ragoût
La parola stessa ragoût deriva dall’antico francese ragoûter che significa “risvegliare il gusto” e riassume bene la funzione che aveva. Il ragù diventa in breve uno dei simboli della nuova moda gastronomica. Insieme ai brodi concentrati e alle salse cremose, segna la rivoluzione culinaria francese, sostituendo il ventaglio di sapori basato sulle spezie di origine medievale. Cannella, chiodi di garofano, zenzero e noce moscata sono aboliti o usati in quantità minime, mentre lo zucchero slitta a fine pasto e non viene più sparso sulle pietanze salate.
Cento anni dopo il ragù arriva in Italia
Le nuove delicatezze francesi allarmano però i medici che mettono sotto accusa i cuochi additandoli come preparatori di pietanze dannose per la salute. I ragù in particolare sono il bersaglio di critiche feroci, come quella che appare sulla Cuciniera piemontese del 1771: “son nocivi alla sanità, perch’eccitano in noi delle violente fermentazioni, le quali corrompono i nostri umori, e fanno perdere alle parti sode del corpo la loro virtù elastica; e finalmente distruggono i principi della vita”. Non si sa cosa siano le “parti sode del corpo” che vengono così maltrattate, ma di sicuro il medico ve li avrebbe sconsigliati.
Roma e Napoli: i primi fan tra clero e nobiltà
Tra i primi ad accogliere la novità gastronomica c’è comunque Antonio Latini, già cuoco del cardinale Barberini a Roma e di Esteban Carillo Salsedo, primo ministro del Vicerè di Napoli. È con lo sguardo sul Vesuvio che Latini scrive Lo scalco alla moderna, nel 1692: in questo ricettario compaiono molte novità, tra le quali appunto la prima “Salsa di pomadoro, alla spagnuola”, che però non è un ragù.
È grazie a lui che il ragù fa il suo esordio a Napoli, anzi il raù, come lo chiama nella sua ricetta “Piatto detto Raù”, che però non ha il pomodoro. Se pensate infatti che sia simile a quello odierno cascate male. Si tratta infatti di un fianchetto di vitella ripieno di carne macinata, tuorli d’uovo, polpa di amarene, prosciutto, midollo, tartufi, polvere di mostaccioli, pinoli, erbe aromatiche e spezie che viene cotto in forno e servito con un intingolo cotto a parte (il vero e proprio ragù) di animelle, cime di cavolfiori e asparagi.
Il primo incontro, in Italia, tra il ragù e la pasta
Dovranno passare decine di anni prima che il ragù venga a contatto con la pasta e, naturalmente, l’incontro avverrà in Italia. All’inizio sarà attraverso i timballi, quelle ricche portate racchiuse all’interno di uno scrigno di pasta che i francesi riempivano di carne, mentre noi stipavamo di maccheroni e lasagne. Era la pasta al forno la protagonista dell’epoca e si divideva la scena con quella in brodo. La pastasciutta invece non era così usata e i modi di condirla si limitavano ancora al solo burro e formaggio grattugiato con pochissime eccezioni.
Anche a Napoli si mangiava così, almeno fino a metà Settecento. È nel bel mezzo del secolo dei Lumi che infatti cambia qualcosa. Al semplice condimento a base di burro e formaggio viene aggiunto un insaporitore: qualche cucchiaiata del sugo ricavato da uno stufato di carne. Nasce così quello che sarà chiamato “sughillo”, usato per dare maggiore sapore alla pasta, vero antenato di tutti i ragù napoletani. La sua prima citazione la deve nientemeno che a Giacomo Casanova. Nelle sue memorie racconta di avere fatto servire i “maccheroni al sughillo” nella sua villa fuori Parigi durante il suo soggiorno tra il 1757 e il ‘58. Si sa che, oltre a essere stato un grande seduttore, Casanova era un amante della buona cucina, pertanto non ci sorprende che sia stato il primo a far conoscere la ricetta al di là delle Alpi.
Maccheroni alla napoletana: sugo di vitella e verdure
Per trovare una vera e propria ricetta dei “Maccaroni alla Napolitana” dobbiamo aspettare la fine del secolo e la pubblicazione del trattato di Francesco Leonardi, il più importante cuoco del Settecento. Nel suo L’Apicio Moderno del 1790 condisce i maccheroni appena scolati con Parmigiano grattugiato e pepe a cui aggiunge “Sugo di vitella, o di manzo, ovvero un buon brodo di stufato, o garofanato”. Il condimento principale era ancora a base di Parmigiano, una sorta di cacio e pepe ante litteram, a cui veniva aggiunto il sugo. In alternativa al fondo ricavato da un grosso pezzo di carne stufato, Leonardi suggerisce di usare un sugo di vitella o di manzo estratto dalla rosolatura di carne e altri ingredienti finiti di cuocere in un brodo sostanzioso. Il risultato è un liquido bruno dagli intensi aromi di carne arrosto e ortaggi, una delle basi della cucina dell’epoca.
La nascita del "vero" ragù alla napoletana
Nella seconda edizione del 1807 la ricetta viene modificata introducendo anche il pomodoro tra gli ingredienti dello stufato. È una delle primissime apparizioni del pomodoro all’interno di un sugo dedicato alla pasta che da allora non abbandonerà più il campo, rappresentando uno dei matrimoni più riusciti e duraturi della gastronomia moderna.
Dieci anni dopo, nel 1817, viene stampato uno dei più importanti ricettari napoletani del secolo intitolato Cucina casereccia, il cui autore si firma solo con le iniziali M.F. Grazie a lui abbiamo la descrizione del primo vero e proprio prototipo di ragù che sarà tramandato con pochissime varianti fino agli anni Sessanta del Novecento. È quasi un primato, considerando che sono anni rivoluzionari per la cucina italiana.
Naturalmente non poteva mancare la ricetta dei “Maccheroni alla napoletana” che, una volta scolati, “si caricano di formaggio vecchio, e di caciocavallo grattato, e si apparecchiano con buon brodo di ragù, dove sieno stati cotti i pomidoro, a loro tempo, o di conserva di essi”.
Il binomio stufato-maccheroni è una costante che si ripete anche in tutte le “liste di pranzi” pubblicate all’interno dei ricettari. Ogni volta che si cuoce un grosso pezzo di carne, il sugo viene usato per condire i maccheroni: lo stufato rappresenta il piatto principale e i maccheroni sono un accessorio, ma è da questo momento che questi elementi iniziano ad avere sempre più importanza nella dieta partenopea.
Il mito: “O’raù” di Eduardo (De Filippo)
Arriviamo così agli anni ‘60 quando Eduardo De Filippo mette in scena l’opera teatrale Sabato, domenica e lunedì incentrata sulla preparazione del classico ragù. Il sipario si apre su Donna Rosa in cucina dove protagonista è “il pezzo d’annecchia di cinque chilogrammi” cotto con una grande quantità di cipolle e un po’ di pomodoro.
La ricetta tradizionale però sta cambiando e passano solo pochi anni prima che venga introdotta la carne di maiale, ingrediente estraneo fino ad allora. Dopo un lungo periodo di stasi, il ragù napoletano viene investito da quella veloce evoluzione che lo aveva risparmiato fino ad allora. Oggi la ricetta prevede una parte di manzo, di solito la locena, a cui si aggiungono le tracchie di maiale, le salsicce, oltre alle classiche braciole: involtini di manzo ripieni di formaggio pecorino grattugiato, aglio, prezzemolo, pinoli ed uva passa. Il ragù napoletano diventa sempre più ricco e le varianti sono infinite, sia nei ricettari che nelle versioni casalinghe, dove i segreti non varcano le mura domestiche.
Bologna: la praticità della carne macinata
Il ragù a Bologna nasce invece già grande. Non sappiamo se sia a causa di mancanza di fonti storiche che ne descrivano i primi passi, oppure perché si forma a seguito di ricette precedenti che usano la carne tritata per condire la pasta. La grande differenza è tutta qui: mentre nel ragù napoletano si utilizza tradizionalmente solo la parte liquida sui maccheroni e lo stufato si mangia a parte, in quello bolognese tutta la carne tritata finisce nel piatto. Un espediente per rendere la pasta più sostanziosa svincolandola dall’obbligo di cucinare un grosso pezzo di carne solo per condire i maccheroni. La praticità è la vera novità della “bolognese”.
I maccheroni alla bolognese di di Pellegrino Artusi
Il primo a parlarne è Pellegrino Artusi, il celebre gastronomo romagnolo, nel suo La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene del 1891. Artusi non usa mai la parola “ragù” nel ricettario per due buoni motivi: innanzitutto il termine indicava ancora i vecchi piatti di carne in intingolo, in secondo luogo era allergico alle parole francesi e conduceva una battaglia sulla italianità della lingua, oltre che della cucina.
Per questo motivo la ricetta si intitola “Maccheroni alla bolognese”, mentre le tagliatelle (il formato di pasta più amato dai bolognesi) sono citate solo come alternativa.
I primi ragù alla bolognese, pomodoro quasi assente
I maccheroni alla bolognese artusiani, rispetto a quelli attuali, non prevedono il pomodoro bensì il brodo con cui viene “tirata” la carne dopo la rosolatura iniziale. Un tratto che ricorda il metodo in cui venivano realizzati i sughi di carne nel secolo precedente. L’aspetto che accomuna i due ragù è il condimento preliminare della pasta con il Parmigiano grattugiato. Ancora alla fine dell’Ottocento il formaggio rimane l’ingrediente principale, mentre il ragù è un accessorio. I maccheroni vengono cosparsi con abbondante Parmigiano e conditi con qualche cucchiaiata di ragù in cima, esattamente il contrario di quello che si fa oggi.
Ada Boni e il suo Talismano: un cucchiaio di pomodoro
Grazie alla fama raggiunta da Artusi, negli anni successivi la ricetta viene ripresa e modificata da innumerevoli manuali di cucina. Nei primi del Novecento inizia a essere aggiunta la salsa di pomodoro, ma in quantità minime: Ada Boni nel Talismano della felicità negli anni ‘30 parla di “un cucchiaino da caffè – non più – di conserva di pomodoro”. A metà del Novecento arriva quindi la volta della carne di maiale che porterà la ricetta agli esiti attuali.
Gli spaghetti alla bolognese che conquistano il mondo
Artusi consiglia di usare grossi maccheroni detti “denti di cavallo”, mentre le tagliatelle rimangono solo una seconda scelta. Nonostante questo, saranno proprio le tagliatelle all’uovo che si affermeranno come formato principale.
Nel 1898, pochi anni dopo l’uscita del ricettario di Artusi, abbiamo però la prima testimonianza dell’esistenza degli “Spaghetti di Napoli alla Bolognese”, come troviamo scritto all’interno del menu dell’Hotel Ville de Bologne di Torino. L’abbinamento – che fa tanto arrabbiare i puristi bolognesi – si può dire che sia nato prima delle tagliatelle al ragù.
In Italia gode di fortune alterne, mentre nel resto del mondo gli “spaghetti bolognese” (o bolognaise) rappresentano una delle specialità più amate ancora oggi.
Il “mistero” della napoletanissima Genovese
C’è un altro ragù a base di cipolle (tantissime cipolle) e carne di manzo stufata con cui si condiscono i tradizionali ziti spezzati a mano. Pur essendo una ricetta napoletana è conosciuto come “genovese” e questo strano nome ha scatenato le più invereconde fantasie.
Si va dall’ipotesi che il piatto fosse nato nelle bettole del porto di Napoli durante la dominazione aragonese del XV secolo i cui proprietari erano genovesi, fino a un fantomatico cuoco partenopeo soprannominato O’ Genovese. La soluzione è però molto più semplice e basta sfogliare qualche ricettario ottocentesco.
Come abbiamo visto, alla fine del Settecento Francesco Leonardi descrive la ricetta dei maccheroni alla napoletana conditi con il fondo di stufato senza pomodoro. Questa versione “bianca” era la stessa che veniva usata anche per le lasagne alla genovese che si diffonderanno di lì a poco. A metà dell’Ottocento esisteva quindi un unico condimento a base di sugo di stufato con le cipolle, usato sia per i maccheroni napoletani, che per le lasagne genovesi.
Il pesto genovese diventa "il ragù ligure"
Dopo poco a Napoli inizia a essere aggiunto il pomodoro in questo condimento. D’altronde la città partenopea aveva un antico legame con il frutto arrivato dalle Americhe che aveva cominciato a riscuotere un crescente successo. Per un certo periodo a Napoli si trovano contemporaneamente due condimenti per i maccheroni: uno con il pomodoro e uno senza. Siccome quest’ultimo era anche conosciuto come “genovese”, i napoletani pensarono di continuare a usare questo nome per la sola versione “bianca”, mentre quella con il pomodoro divenne l’unica vera “napoletana”.
Anche nella stessa Genova questo condimento usato per le lasagne aveva un suo doppio, tutto vegetale e pensato per i periodi “di magro”, quando cioè non si poteva mangiare carne: il pesto alla genovese. Con il passare dei decenni il condimento a base di fondo di stufato scompare dalla città ligure, lasciando piazza libera al pesto che divenne uno dei piatti più rappresentativi di Genova.
Per questo motivo, e non altro, a Napoli si trova una “genovese” che non ha corrispondenti in Liguria.
Grazie al ragù la pasta italiana conquista il mondo
Quando pensiamo alla pasta e al suo successo mondiale ci scordiamo un fatto fondamentale. I maccheroni e gli spaghetti esistono dal Medioevo, ma hanno sempre avuto un consumo limitato fino a che sono stati conditi solo con burro e formaggio. Per quasi mezzo millennio la pastasciutta non è stata mangiata in altro modo, mentre oggi abbiamo un’incalcolabile varietà di condimenti.
Il punto di svolta è stato quella singola cucchiaiata di fondo di stufato che qualcuno ci ha piazzato sopra. Se non ci fosse stato l’incontro tra il ragoût francese e la pasta italiana, probabilmente il mondo oggi non sarebbe stato lo stesso.
Forse qualcuno in passato aveva già provato a condire la pasta diversamente, ma probabilmente i tempi non erano maturi e la scintilla non era scattata. Dopo il ragù, i sughi per la pasta si sono moltiplicati. All’inizio è stata una rivoluzione silenziosa, tutta napoletana, con il pomodoro e le vongole descritte da Ippolito Cavalcanti nel 1837, poi la moda è dilagata ed è diventata una marea.
Ogni volta che mangiate la pasta, qualunque essa sia (a parte la cacio e pepe) sappiate che il suo successo lo deve tutto al ragù.