È con la sua crema di semolino - morbida e insieme densa, compatta oltre che deliziosamente profumata - che s'annuncia sulle tavole in festa del Carnevale il migliaccio napoletano. Si tratta di un dolce assai antico che racchiude dentro di sé le straordinarie stratificazioni, anche culturali, di cui ci ha abituato la storia stessa della gastronomia. E che preparato ancor oggi come forma di devozione, nel rispetto cioè di quella cucina della nonna, si presta altresì a innovazioni che lasciano intravedere sviluppi futuri.
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Il miglio e il sangue di maiale
Già il suo nome ci rimanda a un'epoca remota - quella ben precedente all'arrivo del mais dalle Americhe nel Cinquecento - quando il miglio rappresentava una straordinaria fonte di sostentamento specie per le popolazioni contadine. Fu celebre, ma anzitutto prezioso il ruolo svolto da questo cereale a favore della popolazione veneziana nel 1378 durante il lungo assedio da parte dei genovesi. In Campania, terra natale di questo dolce distintivo, la sua preparazione avveniva un tempo proprio con il miglio, in grado di crescere spontaneo anche su terreni incolti. Insieme, vi compariva un altro ingrediente da tempo ormai scomparso: quel sangue di maiale, alimento considerato completo oltreché nutriente dai contadini, che ricevette però un colpo mortale al suo utilizzo dal divieto imposto dalla Chiesa Cattolica che lo vedeva come un retaggio di tradizioni pagane.
Una variante povera della sfogliatella napoletana
Una torta di semolino con uova e ricotta (e profumata di scorza d'arancia e limone ma anche con cannella oppure di vaniglia): così ci appare oggi il migliaccio. Con quel gusto della farcia che ricorda quello di una crema vera e propria. E che grazie all'aggiunta della ricotta rimanda niente meno che alla sfogliatella. Basti pensare che nella Valle Caudina, tra le province di Avellino e Benevento, questo dolce del martedì grasso viene ancor oggi chiamato "sfogliata".
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Nella lentezza della preparazione, il suo segreto
Catello Di Maio, depositario della tradizione, lo prepara nella sua Cesto Bakery di Torre del Greco (NA) dopo aver custodito amorevolmente la ricetta che gli ha lasciato nonna Maria e che così ci presenta: «È un dolce dall'aspetto semplice e candido che per realizzarlo al meglio richiede un'ottima materia prima: dalla ricotta di pecora agli agrumi non trattati tipici dell'area vesuviana la cui scorza andrà lasciata bollire nel latte così da ritrovarne il profumo all'assaggio. Fondamentale per il buon esito è il procedimento: la crema del Migliaccio va cotta molto lentamente con un fuoco bassissimo per 45 minuti. Solo così si rivelerà vellutata e setosa. Il mio consiglio, se preparato a casa, è di aprire la porta del forno dopo i primi 25 minuti di cottura, lasciando uno spiffero proprio come faceva la nonna».
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Un migliaccio al passo con i tempi
L'innovazione di questo dolce antico è oggi affidata anche alle mani di un pasticcere sensibile come Cesare Casoria di RO Cafè & Patisserie a Nola (NA) che sintetizza così la sua ricerca: «Un dolce tanto semplice come il migliaccio, senza effetti speciali, faticherebbe e non poco a trovare spazio nella vetrina di una pasticceria moderna, rischiando di finire nel dimenticatoio. E allora ho pensato di costruirgli intorno un involucro, una pasta frolla che realizzo con metodo "sabbiato", partendo da del burro molto freddo, così da aumentarne friabilità e croccantezza. Credo di aver aggiunto in tal modo ciò che al Migliaccio mancava: un involucro stabile e sontuoso».