"La cucina italiana esiste ed è fatta di condivisione delle diversità". Dopo Barbero parla lo storico Montanari

25 Ott 2024, 18:05 | a cura di
Il maggiore storico dell'alimentazione dialoga col collega: "Barbero ha ragione quando dice che la cucina italiana è fatta di moltissime cucine. Ma questo non significa che non esiste, perché quelle cucine interagiscono fra loro e si mescolano"

«La cucina italiana esiste fin dal Medioevo ed è fatta di condivisione delle diversità». Lo sostiene da tempo Massimo Montanari, ritenuto il maggiore storico dell’alimentazione a livello internazionale. Lui e il suo collega medievista Alessandro Barbero, che abbiamo intervistato nei giorni scorsi, hanno dialogato qualche giorno fa sul palco del Teatro comunale di Imola in apertura del festival “Baccanale” (in corso fino al 10 novembre) sul tema “Alimentazione e società nel Medioevo”.

Professore, il suo collega Alessandro Barbero ci ha detto che non esiste una cucina nazionale, perché la cucina italiana è fatta di moltissime cucine. Ci aiuti a capire meglio.

Credo che sia necessario fare chiarezza sulle parole che usiamo. Nazionale cosa vuol dire? Italiano cosa vuol dire? Io direi che una cucina italiana esiste fin dal Medioevo, ma non c’entra nulla con l’Italia. Perché la parola Italia, almeno per come la usiamo oggi, rimanda alla politica: indica uno Stato con i suoi cittadini, tenuti a osservare regole e leggi comuni. La parola italiano ha un senso più ampio e si apre a un contenuto culturale: indica coloro che condividono modi di vita, atteggiamenti mentali, gusti (anche alimentari). Per molti secoli sono esistite persone che si sentivano italiane pur non vivendo in uno Stato chiamato Italia. L’Italia non esisteva se non come comunità culturale. Artisti, letterati, musicisti, cuochi vivevano in spazi politici diversi, che si chiamavano Ducato di Milano, Repubblica di Venezia, Stato pontificio, Regno di Napoli eccetera; ma si sentivano italiani perché condividevano una cultura comune.

Anche a tavola.

Prodotti e ricette appartenevano a culture locali, ma il mercato faceva girare i prodotti, i libri di cucina facevano conoscere le ricette, e i cuochi andavano in giro da un luogo all’altro. Sicché le abitudini locali circolavano, sulle tavole delle corti e dei palazzi. Il mio amico Barbero ha ragione quando dice che la cucina italiana è fatta di moltissime cucine. Ma questo non significa che non esiste, perché quelle cucine interagiscono fra loro e si mescolano. È in questo modo che prende forma la cucina italiana: come condivisione delle diversità.

Ma questo accadeva solo sulle tavole dei signori…

Certo. Solo pochi potevano permettersi di assaggiare ricette «romanesche», «fiorentine», «siciliane» o «padovane» o «bolognesi», o «genovesi», come si legge nei libri di cucina dal Medioevo in poi. Gli italiani in questo senso erano pochi, pochissimi. Ma c’erano, e si sentivano italiani. Col tempo questi italiani si sono moltiplicati, la mescolanza di pratiche e di gusti è diventata più accessibile, dapprima ai ceti borghesi, poi a tutti (grazie alla televisione, ai giornali, ai media). Nel frattempo è nata l’Italia come entità politica, ma quella è un’altra storia. La cucina è una forma di cultura, e come tale dei confini se ne frega. Per questo è giusto includere nella cucina italiana gli italo-americani che hanno esportato e rielaborato le loro abitudini; per questo è cucina italiana quella di certe comunità che si sentono italiane pur vivendo in altri paesi.

Dell’espressione “cucina nazionale” cosa pensa?

La questione è complicata, perché da alcuni secoli si è diffusa un’idea, quella di Stato-Nazione, che confonde due aree concettuali lontane fra loro: quella dell’appartenenza politica (lo Stato) e quella dell’appartenenza culturale (la Nazione). Se le teniamo distinte, “italiano” e “nazionale” sono due aggettivi che coincidono. E qui riprenderei il discorso sociale che facevamo prima: quella “nazione” per molto tempo fu una comunità ristretta. Ma c’è un aspetto della questione su cui insisto molto, ed è lo scambio, il dialogo fra alta cucina e cucina popolare, che nel nostro paese, più che altrove, sembra assai intenso. Voglio dire che fin dal Medioevo l’alta cucina, quella delle corti, dei palazzi e dei grandi cuochi, non è separata dalla cucina “povera”, legata ai singoli luoghi e territori, ma la raccoglie e la rappresenta, includendola nel repertorio culinario che viene poi condiviso a livello nazionale. Così il meccanismo della condivisione è duplice: geografico e sociale. Ed è come se anche la massa della popolazione in qualche modo partecipasse alla costruzione di quella “italianità”. Per questo oso spendere anche l’aggettivo “nazionale” parlando della cucina italiana.

Infatti lei afferma da tempo che la cucina regionale non esiste. È un giudizio definitivo?

Dal mio punto di vista sì, è definitivo. Altrimenti torniamo all’equivoco di prima: scambiare la cultura con la politica. La regione è un’entità politica, non culturale. Parlare di cucina regionale in un paese come l’Italia, in cui di cucine non ce ne sono venti ma duecento, non capisco che senso abbia sul piano culturale. Si capisce solo sul piano politico, visto che gli enti di promozione turistica sono regionali. Ma dentro una regione ci sono tanti distretti gastronomici (chiamiamoli così) e molti di essi sono inter-regionali. La cucina italiana, intimamente legata ai luoghi, semmai la possiamo definire “cittadina”, nel senso che le cucine dei territori hanno sempre fatto capo alle città e dalle città sono state rappresentate. Quando mi chiedono: lei è emiliano romagnolo? Non so cosa rispondere. Io sono imolese.

Fin dalla pubblicazione del suo libro La cucina italiana scritto insieme ad Alberto Capatti nel 1999 lei lavora per sostenere queste posizioni. La cucina italiana si è ora candidata ad essere riconosciuta come patrimonio immateriale Unesco. Quali sono le carte vincenti che può giocarsi?

Le carte sono due. Prima carta: la cucina italiana come condivisione delle diversità. È un metodo straordinario, un modello che ritengo importante diffondere. A cosa serve alla cucina italiana il riconoscimento Unesco? Quando me lo chiedono rispondo: a niente. La cucina italiana è già fortissima non ha bisogno di alcun riconoscimento. Ma rovescio il discorso e dico che serve piuttosto all’Unesco promuovere l’idea che una cultura è tanto più forte quanto più nasce da una condivisione di diversità. Seconda carta: la radice popolare della cucina italiana, anche quando arriva a livelli di grande raffinatezza. Questo la rende diversa da altre cucine. La cucina italiana è semplice, essenziale, inclusiva, e si adatta a qualsiasi compromesso. Per questo è la più richiesta nel mondo.

Usciamo dall’Italia, ma non troppo. Nella sua lezione introduttiva al Baccanale, dedicato quest’anno all'olio, ha raccontato di un recente viaggio in Normandia e del cartello che ha letto all’ingresso di un piccolo ristorante: “qui non troverete olio di oliva”. È solo questione di fedeltà alle proprie tradizioni alimentari o c’è dell’altro?

Quando si proibisce qualcosa vuol dire che quella cosa esiste. E se si dice qui niente olio, vuole dire che l’olio sta arrivando, è di moda, mette in discussione le tue certezze (in questo caso, sull’assoluta eccellenza del burro). Una frase come quella ci fa capire che i francesi non si sentono più i leader della cucina, come erano riusciti a farsi considerare fino a una generazione fa, perché il modello italiano si sta imponendo ovunque.

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