Se il Parmigiano Reggiano è uno dei primi mattoncini nella costruzione di un “gusto italiano” e di una identità gastronomica italiana nel Secondo Dopoguerra, Mario Soldati è colui che ha fatto conoscere a questo Paese ricchezze di cui solo in pochi avevano esperienza. Come la salama da sugo o i peperoni di Carmagnola o i cardi gobbi di Nizza Monferrato. Ma ha fatto conoscere anche come, da quali mucche, da quali mani e da quali stalle nasceva quel latte che al Parmigiano dava vita. Prodotti e “narrazioni” che oggi fanno “figo”, ma che allora – era il 1957 quando andò in onda il suo “Viaggio nella Valle del Po” – puzzavano di terra e di campagna, avevano addosso il timbro delle muffe di cantina. Oggi le rimpiangiamo quelle cose, perché il boom ce le ha portate in gran parte via. Ma oggi, ancora, c’è chi prova a rifarle, in maniera moderna, con più tecnologia, come atto ribelle di ritorno alla terra. Beh, senza Mario Soldati, di cui ricordiamo i 25 anni dalla morte, quelle cose sarebbero forse passate inosservate.
Sapori genuini (e contadini)
“Alla ricerca dei sapori genuini” era il sottotitolo di quel reportage in 12 puntate, lungo 652 chilometri dalla sorgente al delta del fiume più lungo d’Italia. Lì, in quella che era la mamma di tutte la valli italiane – poi Padania in una sorta di moderno slogan geo-politico – Mario Soldati va a caccia di storie sconosciute e minime, di coltivazioni sconosciute, di sapori nascosti e immensi al tempo stesso. Era poesia, nel senso che era una trasfigurazione epica di un mondo già ad alto rischio di estinzione. Oggi qualcuno stigmatizza quel tipo di reportage come “falso”. Ma Soldati non voleva rappresentare il “vero”, bensì “l’autentico”. Il suo amico Montanelli – ricorda Mario Baudino su La Stampa – disse di lui “Soldati non si veste, si trucca”. Ed era questa sua autentica, intima, capacità di affabulazione e di seduzione che ha reso universale il suo messaggio. È questa sua caratteristica che a cinquant’anni di distanza da quel reportage – quando nei suoi primi anni di vita Gambero Rosso Channel che allora collaborava con la Rai rimandò in onda le puntate in bianco e nero – quei racconti e quei sorrisi di un vecchio dai baffi irresistibili consente alle immagini graffiate dal tempo di imprimersi di nuovo nei cuori di giovani foodies che – siamo al principio del nuovo millennio – negli anni Cinquanta non erano ancora nati. Immagini che parlano alla Generazione Z come ai boomers. Non perché “vere”, ma perché “autentiche”. Raccontate non da un uomo che semplicemente si veste, ma che si trucca: per tirar fuori la sua autenticità, oltre la verità di sé.
Da Viaggio sul Po a Vino al Vino
A vent’anni dal Viaggio sul Po, Soldati – che nella sua vita ha fatto di tutto, che è stato un intellettuale poliedrico e che ha spaziato dalla letteratura alla tv, dal cinema all’enologia – dà alle stampe un altro caposaldo della modernità: Vino al Vino. Mancavano dieci anni allo scandalo del metanolo. Mancavano dieci anni alla più grande crisi e allo stesso tempo alla più grande rinascita che il vino italiano abbia vissuto. Una rinascita che è stata ricerca di qualità, ma che è stata anche imitazione (Oltralpe), standardizzazione (mercati), industrializzazione (produzione). Così è a più di 40 anni da quel libro che l’antica, tradizionalissima Malvasia di Bosa è diventato un vino simbolo della nuova tendenza “naturale”, della nuova strada “ossidativa”.
"Il vino è come la poesia"
“Il vino è come la poesia, che si gusta meglio, e che si capisce davvero, soltanto quando si studia la vita, le altre opere, il carattere del poeta, quando si entra in confidenza con l’ambiente dove è nato, con la sua educazione, con il suo mondo. La nobiltà del vino è proprio questa: che non è mai un soggetto staccato e astratto, che possa essere giudicato bevendo un bicchiere, o due o tre, di una bottiglia che viene da un luogo dove non siamo mai stati”. Così scrive Soldati nel suo libro. E Bosa è uno di quei luoghi dove entra in contatto con questa Malvasia sarda, una scoperta, un’esperienza mai fatta prima. In quelle parole pensate, vissute e scritte 47 anni fa, c’è gran parte delle idee sul vino di oggi, dal terroir allo storytelling, dall’identità all’elogio dell’imperfezione. Ma i mondi del vino e della critica enologica dovettero aspettare il 2004 per cominciare a riflettere e ragionare su passato e futuro, sul senso vero delle cose e su cosa fosse (o dovesse o potesse essere) il vino. Quando Mondovino – il docufilm di Jonathan Nossiter – venne presentato a Cannes, il gotha dell’enologia internazionale gridò vendetta. Giovanni Battista Columbu, sconosciuto contadino di Bosa nella Sardegna profonda, era presentato come il vero eroe contro le mistificazioni di critici del livello di Robert Parker o miti come Michel Rolland, l’enologo volante al tempo della globalizzazione. La sua Malvasia era la fionda con cui Davide poteva battere Golia.
Dalla Malvasia di Bosa ai pre British
Da lì, dall’inizio del nuovo millennio, la storia è nota. Oggi parliamo dei vini pre British come vera opportunità di rinascita di un vino che non vende più come il Marsala. Storie di altri visionari, anche loro precursori e autentici, come Marco De Bartoli. Ma ne è passata tanta di Storia sotto i nostri piedi perché i “naturali” diventassero vini a tutti gli effetti e perché gli “ossidativi” venissero riconosciuti come vini da meditazione (nel senso più vero del termine) e la macerazione diventasse uno stile e desse corpo a un colore che oggi è tanto trendy nel mondo e nel business del vino, orange.
Un cacciatore con l'arma della scrittura
Ecco, questo po’ po’ di storia – un vero e proprio condensato della storia della cultura gastronomica italiana (e non solo) dell’ultimo secolo – è solo un pezzetto nel racconto di quel grande uomo e di quel grande intellettuale che fu Mario Soldati. A lui, nato a Torino nel 1906 e morto a Tellaro il 19 giugno del 1999, la Fondazione Mondadori e il Comune di Orta (su quel lago lo scrittore visse a lungo e lo elesse a suo luogo dell’anima) dedicano una mostra di tutti i suoi libri e delle sue lettere. Compresa quella sull’Ordine dei Giornalisti che gli rifiutò l’iscrizione e in cui lui esibisce quasi stupore per il fatto che il non essere iscritto al Partito nazionale fascista possa costituire un pregiudizio insuperabile: cosa che lui sa perfettamente, ma che sottolinea con quell’ironia che è la sua autenticità, pure se non appartiene alla verità. Perché – come scrive Baudino che ringraziamo per il suo bel pezzo – Soldati “resta il maestro della (apparente) naturalezza. Ha la tecnica di un cacciatore: si avvicina lentamente, ma non perde più di vista il suo obiettivo, sa fingersi distratto, ma è sempre padrone della scrittura, della logica narrativa che da essa prende vita e colore. E non se ne dimentica mai: anche quando deve mandare una non facile lettera all'allora fascistissimo Ordine dei giornalisti”.