Che Procida avesse un destino letterario, era scritto, non solo fra le pagine di Arturo né nella recente ascesa a Capitale italiana della Cultura 2022. Sui quasi quattro chilometri quadrati di isola i bambini nascono, o meglio non nascono, in un modo romanzesco. Una motovedetta dedicata, che naturalmente si chiama La Cicogna, porta le gestanti da Procida alla terraferma, verso Napoli o Ischia prevalentemente, ma più di qualche volta è capitato che i bambini a cui proprio gli scappava di venire al mondo, nascessero a bordo. Ovvero in mare. Pare che Marco Ambrosino, procidano di Procida, non avesse fretta quel 13 giugno 1984 quando aprì gli occhi per la prima volta. Consentì che la mamma arrivasse in ospedale e sbrigasse la faccenda in tranquillità – per quanto tranquilla possa andare la questione del nascere. Ma quella traversata prenatale fra acque amniotiche e marine deve essergli rimasta impigliata nelle viscere, se è vero come è vero che, malgrado i dieci anni tondi a Milano, il Mediterraneo se l’è portato appresso.
Il ritorno in riva al mare che bagna Napoli
Tanto che a Napoli Marco ha deciso di ritornare e qui aprirà il suo nuovo posto da cui dedicherà un occhio anche alla realtà milanese dove rimane il suo braccio destro Franco Salvatore. “È arrivato il momento di avvicinarmi a casa – sorride Ambrosino – Non è una fuga da Milano, ma una scelta dettata da motivi sentimentali e che stavamo maturando da tempo: sono stati anni incredibili, ma 10 anni a Milano sono abbastanza”.
Il Mediterraneo dello chef di Procida, però, non ha lambito solo i fuochi del 28 Posti, il ristorante a un passo dai Navigli dove era la sua cucina fertile di contaminazioni. Ha influenzato anche il concepimento e la fondazione del Collettivo Mediterraneo, un progetto corale e inclusivo (non solo cuochi, pure architetti, food writer, attori…) che parte dal cibo “come gesto sociale, fatto dalle persone per le persone” per raccontare “la storia delle tradizioni gastronomiche e delle sue avanguardie”, ovvero “la storia dell’umanità”. Un progetto che indaga le ragioni, le storie, la gente del mare con intento scopertamente politico ma senza bandiera. L’unico vessillo è la professione di fede che sottende al progetto e lo anima: “noi crediamo nell’umanità”, si legge nel manifesto programmatico. Il collettivo, nato in piena pandemia, è rappresentato graficamente da una lisca di pesce (di su) con le radici (di giù) attraversata dalla linea dell’orizzonte (che potrebbe essere tanto terra quanto mare). L’autrice è Simona Castagliuolo, architetto (appunto), madre di due Ambrosino jr e moglie di Marco oltre che suo personale Grillo Parlante e compagna di av-ventura (anche nel Collettivo). Niente di “umano” in quel segno grafico, dunque. E allora?
Da Procida al Collettivo Mediterraneo
Per capire l’ultima frontiera-sans Frontières, alla quale il cuoco generazione Forty è approdato, bisogna fare un viaggio à rebours: sulla rotta di ritorno de La Cicogna a Procida, il piccolo Ambrosino trascorre anni intensi. Sull’isola, al riparo da tutti i luoghi comuni che affliggono la Campania, dove la criminalità è una eco lontana, la vita è giocoforza comunitaria, non solo perché tutti conoscono tutti, ma soprattutto perché la legge del mare – quella del mutuo soccorso – è la regola elementare di sopravvivenza. Dalle propaggini di quel sentimento collettivo nasce Radio Guaranà (niente a che vedere con la mixology né con le canzonette di Elodie), radio libera che prendeva il nome dalla bevanda ad alta concentrazione di caffeina di uso comune in Sudamerica, “praticamente l’anti coca-cola” dove Ambrosino prende parte alla programmazione e all’animazione del palinsesto. La formazione prosegue con gli studi in Economia, le trasmissioni politiche on air, ma anche i carri allegorici che il Venerdì Santo tuttora animano Procida: “Una tradizione magnifica che rischiava di finire inghiottita nell’oblio, alla processione partecipavano i don Camillo e Peppone del momento, c’eravamo tutti. Abbiamo fondato un’associazione per serrare le fila e salvare quel rito, che ancora oggi si celebra”. Da quel sentimento di protezione religiosa del proprio apparato radicale che affonda nell’acqua (le propaggini di giù della lisca!) e lo sguardo dritto e aperto nel futuro, scaturisce la storia a venire. Che per un caso, o forse no, finisce davanti ai fornelli.
A 14 anni fa risale il suo ingresso nel ristorante-pizzeria Agave, è il primo lavoretto estivo sull’isola, l’anno successivo vediamo il ragazzo col destino da cuoco prendere posto à la plonge del ristorante aperto da uno zio. Per una congiuntura astrale, ovvero uno dei rocamboleschi imprevisti che nella ristorazione sono la regola, il giovanissimo plongeur si ritrova una sera solo in cucina come Mosè sul Monte Sinai: “Ero lavapiatti, ma dovetti mettermi a cucinare. Fu pazzesco. I clienti di quella sera non li abbiamo mai più rivisti. Ma fu quello il momento in cui capii che non volevo fare altro nella vita perché mai prima d’allora m’ero divertito così tanto”. Tac. Quella disastrosa e illuminante serata rappresenta il punto di intersezione fra un’attitudine all’azione politica e la cucina, i due assi su cui si innesta tutta la parabola professionale di un cuciniere militante passato per la maieutica di Libera Iovine al Melograno di Ischia: “È stato il mio primo incontro con la ristorazione quella vera – spiega – con Libera ho lavorato cinque anni, si faceva tutto insieme”. Il passo successivo lo porta ad altre latitudini, precisamente al Noma di Copenaghen, in uno stage breve e fulminante in cui capisce con chiarezza lampante che “si poteva fare ristorazione non parlando necessariamente di soffritto”. Ma anche che “le fermentazioni sono sempre state, letteralmente, il nostro pane quotidiano: vedi il pane, appunto, i capperi, il formaggio”. I tempi sono maturi, e la formazione gastro-sentimentale pure, per prendere finalmente in mano le redini di una cucina.
L’approdo a Milano e al 28 Posti
È il 2014 quando Marco Ambrosino approda al 28 posti di Milano, un locale costruito grazie a un progetto di inclusione sociale con la partecipazione dei detenuti dell'Istituto Penitenziario di Bollate, parte attiva dei lavori edili ma anche artigiani all’opera per la costruzione di tavoli, porte e armadiature del ristorante. Insomma, il procidano ormai cuoco fatto è nel suo elemento, l’avventura delle avventure può incominciare.
Fin dalle prime battute si cimenta in preparazioni aliene. Non c’entrano con la cucina di tradizione milanese né con quella mediterranea in senso stretto. Chi prova a cacciarlo a viva forza dentro le maglie del pensiero nordico, semplicemente commette una forzatura. E allora? Come si spiegano piatti come Cipolla alla brace, fragoline fermentate e insalata di alghe (2014)? A quale maestro, o scuola, ricondurli? Lo spiazzamento prosegue nel tempo quando nel menu fa la sua comparsa la Ricotta, cenere di buccia d’agrumi, gelato al polline e bottarga (2015).
a cura di Sonia Gioia
QUESTO È NULLA…
Nel mensile di settembre del Gambero Rosso, si parla del talento di un cuoco che si muove su direttrici personalissime, seguendo il filo di una creatività peculiare, impossibile da imbalsamare in una categoria. Ambrosino somiglia ad Ambrosino e a nessun altro che a lui stesso. Una creatività che, sì, c’entra con Procida ma scavalla i confini dell’isola: letture, le più disparate, disegni, suggestioni scaturite da rapporti di fratellanza con altri cuochi, fomentano quella creatività e la espandono in uno spazio immaginifico ben oltre il perimetro della cucina del 28 posti. Uno spazio che si dilata fino a diventare collettivo, accogliendo l’umanità in transito per il tempo di un pasto, di una chiacchiera. Vi raccontiamo di lui con 8 dei suoi piatti iconici, i cavalli di battaglia fortemente identitari di Ambrosino, in cui sul patrimonio tecnico e sulla conoscenza degli ingredienti, si innestano suggestioni derivanti da tutt’altri ambiti. Ma non è tutto. Scopri di più del nuovo numero del Gambero Rosso.
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