Mi fa sorridere vedere come, per una passata di pomodoro versata su un tavolino in Galleria, si mobiliti all’istante lo stuolo di giornalisti pronti a difendere l’onore di Carlo Cracco. A quanto pare, l’indignazione funziona a geometria variabile: silenzio quando si scopre che in Italia oltre 3 milioni di persone vivono in condizione di insicurezza alimentare (dati Coldiretti su fonte Istat), ma scandalo nazionale se qualcuno disturba la colazione di lusso in centro a Milano.
Eppure dovrebbe essere chiaro a chiunque che l’azione di Ultima Generazione non è un attacco personale, né un tentativo maldestro di criminalizzare l’alta cucina. È una protesta simbolica - come ci hanno detto loro stessi in questa intervista - pensata per accendere i riflettori su un tema più ampio e profondamente politico: l’accesso al cibo buono, sano e giusto come questione di disuguaglianza sociale. Ma anziché discutere del merito, si preferisce banalizzare tutto riducendolo a folclore, a “populismo”, a invidia di classe.
Che Cracco rappresenti un simbolo non lo può negare nessuno. Ma è proprio per questo che viene scelto: perché nel nostro immaginario gastronomico incarna la spettacolarizzazione del lusso, l’esperienza per pochi, la distanza siderale tra chi può permettersi un risotto mantecato al midollo e chi, nella stessa città, salta i pasti o si nutre di cibo spazzatura perché è l’unico accessibile.
Andrea Cuomo scrive che “non esiste il diritto al lusso”. Giusto. Ma allora dobbiamo chiederci se esista ancora il diritto a mangiare bene, in modo sano e accessibile, senza dover fare compromessi sulla salute o sulla dignità. Perché oggi anche un’alimentazione minima, giusta, sostenibile è diventata un privilegio. E chi denuncia tutto questo non sta chiedendo di sedersi da Cracco gratis. Sta dicendo che non è normale un’Italia in cui migliaia di persone mangiano male o saltano i pasti, mentre si continua a celebrare l’eccellenza gastronomica come se vivesse in una bolla sconnessa dal mondo reale.
Attaccare Cracco non è dire che Cracco è il problema. È mostrare che non possiamo più ignorare l’abisso che separa chi ha troppo da chi ha troppo poco. È ricordare che la fame esiste, ed è politica.
Anche se non sta bene scriverlo in un comunicato stampa.