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Lorenzo Maggi e gli inizi da contadino
Lorenzo Maggi, classe 1994, è l’anima de L’Orto di Clapi, un ettaro di terra nel Parco Naturale del lago di Martignano (siamo alle porte di Roma) che da quattro anni coltiva, con un po’ di follia e molta preparazione fuori e dentro al campo, in agricoltura rigenerativa. La sua microfattoria, progettata in permacultura, si prefigge cioè l’obiettivo di rigenerare il paesaggio e restituire fertilità “sana” al suolo, lavorando sul territorio con impatto positivo. Ottenendo prodotti che però non siano “semplicemente” sostenibili, ma soprattutto buoni. “L’Orto di Clapi è nato quasi da una follia, è stato un colpo di fulmine” spiega ora Lorenzo “Studiavo all’università, vidi su Youtube il video di un coltivatore altoatesino, che raccontava la permacultura. Avevo 21 anni, ho preso il treno e sono andato a bussare alla porta di quel contadino”. Il contadino in questione era Harald Gasser, che con la sua azienda in quota, Aspinger Raritaten, nel maso trasformato in centro di biodiversità agricola, è diventato punto di riferimento per la ristorazione locale ed esempio lampante di come lavorare sulla terra e per la rigenerazione della terra possa diventare anche un’ottima opportunità di business: “Con Harald siamo diventati amici, da lui ho imparato molto. Quando sono tornato a Roma, ho rubato un pezzetto di giardino a mia madre, per iniziare a sperimentare, a cimentarmi con qualcosa che per me era nuovo. Fino a quando, dopo più di un anno, i miei genitori hanno deciso di regalarmi un ettaro di terra dietro al lago di Martignano”.
Impegno, fatica, programmazione. Nasce L’Orto di Clapi
Una storia quasi da favola, se non fosse che far tornare i conti per avviare seriamente un’attività richiede molta pazienza, tempo e fatica: “Per i primi due anni il mio è stato un orto fantasma, non avevo soldi da investire, ho dovuto lavorare per mantenerlo. Facevo il giardiniere, ma avevo trovato impiego anche all’orto botanico di Viterbo, e davo ripetizioni di matematica. Nel tempo rimasto, curavo l’orto”. Due lunghi anni di crescita lenta, ma costante: “Ho maturato esperienza, sono arrivati i primi risultati in campo. Con i primi guadagni ha comprato gli attrezzi, la serra, e sono partito con un lavoro più strutturato”. E parlare di lavoro strutturato, nella gestione di un piccolo appezzamento di terreno in cui ogni azione deve corrispondere a un obiettivo preciso, significa pianificare fuori e dentro al campo, con l’elasticità necessaria a far fronte agli imprevisti, ma anche molto calcolo e tante competenze integrate.
Cos’è una microfattoria rigenerativa?
Con una visione d’insieme frutto di grande consapevolezza: “Fare agricoltura rigenerativa significa capire il paesaggio, leggerlo prima di operare. Perché in agricoltura l’impatto zero non esiste: in fondo sto modificando quello che c’è, per metterci quello che dico io. E allora dobbiamo lavorare sull’impatto positivo, rigenerare sulla campagna a tutto tondo: in due anni, su 6mila metri di area coltivata, abbiamo piantato 150 alberi, che non significa solo produrre ossigeno, ma anche ombra e foglie che cadono per concimare naturalmente la terra e radici che trattengono meglio l’acqua quando piove. Inoltre stiamo integrando gli orti con sistemi di produzione di frutta, e studiamo i microrganismi del bosco per importarli nell’orto: io voglio creare un sistema autonomo”. Per questo, per esempio, all’Orto di Clapi oggi sono stati realizzati anche nidi artificiali per attirare uccelli predatori che mangiano bruchi e insetti nocivi per le colture, mentre si procede anche con il ripristino delle siepi perimetrali, per regolare le interazioni tra ecosistema interno ed esterno. Insomma, la progettualità è continua, e sempre mirata a favorire una fertilità sana e naturale del suolo, lavorato praticamente in assenza di mezzi meccanici, con sesti d’impianto intensivi, rotazioni frequenti e sovesci, per diversificare le colture pur nel poco spazio a disposizione. “Nell’ultimo anno e mezzo gli sforzi ci hanno ripagato. Il lavoro è aumentato, riforniamo una quindicina di famiglie della zona con le cassette (ma durante il lockdown c’è stato un boom, anche se le cose stanno già tornando alla normalità!), una trentina di ristoranti del bacino romano, una bottega e un pastificio (Piccola Bottega Merenda e il pastificio Gamberoni, ndr)”.
Il linguaggio del gusto
Questo proprio per la grande varietà dell’offerta, che spazia delle orticole più comuni alle rarità, dai microgreen ai fiori eduli, arrivando alle uova delle galline che razzolano nella microfattoria. Perché i prodotti di Lorenzo piacciono? “Perché sono buoni. Sono tecnico agrario e dottore forestale, posso raccontarti quanto vuoi il mio prodotto, ma non devo convincerti a parole. L’unica lingua che dobbiamo parlare è quella del gusto, non devi avere per forza una coscienza ecologica per apprezzare il mio prodotto. Non ti farò un sermone sui microrganismi o quant’altro”. Anche con la ristorazione si lavora così: “Mi è sempre piaciuto collaborare, ma gli ultimi mesi hanno rinsaldato i rapporti umani, ci si viene incontro, abbiamo anche ripensato l’impostazione dell’orto per incontrare le esigenze di tutti. In questo contesto il food cost è importante, devo anche saperti consigliare una qualità che non incida troppo sul budget. Ecco perché sto spingendo molto le spontanee commestibili, che poi sono quelle che realmente ti raccontano il paesaggio e il gusto di una terra. Ed è un sapore che stiamo perdendo, anche se viene dal passato e può rappresentare il futuro. Penso ai fiori di carota, agli asparagi di rovo, alle misticanze selvatiche… Hanno sapori spaziali, e costituiscono il vero legame che abbiamo con il territorio. Bisogna lavorare per recuperarle, ampliare la nostra conoscenza, trovare tecniche gastronomiche per esaltarle”.
Lavorare con gli chef
In Marco Gallotta, che ha di recente rimesso la giacca da chef alla guida del ristorante La Quercia, Lorenzo ha trovato una sponda molto disponibile ad assecondare le sue sperimentazioni: “Penso ai cuori di girasole, che ora sono entrati nel suo menu, proposti in una frittura mista di fiori. Avevo letto delle vecchie ricette Navajo, noi usiamo i girasoli perché sono piante mellifere e perché con i semi nutriamo le galline. Ma ho proposto a Marco di utilizzare i cuori in cucina, lui si è fidato. E funziona!”. Prima era stata la volta dello shiso rosso giapponese, in collaborazione con Bottega Liberati: “Una ricerca importante è quella sulle erbe aromatiche, spesso relegate a un ruolo minore. Invece possono completare i piatti in modo inaspettato: ho un tagete messicano che in bocca ha il gusto di un cocktail cubano. Chiunque ha un ceviche in carta se ne innamora”.
Obiettivi per il prossimo anno? “Stiamo avviando un lavoro sui frutti di bosco autoctoni – sambuco, rose canine – che possano crescere nel nostro ecosistema in modo sostenibile. E da ottobre apriremo il nostro orto: ci stiamo attrezzando per partire con eventi, visite in campo, punti barbecue da utilizzare in collaborazione con cuochi. Si potrà girare per l’orto e chi vuole potrà frequentare i corsi di formazione agricola che organizzeremo”. Di stare fermi non se ne parla.
L’Orto di Clapi – Campagnano di Roma – www.ortodiclapi.it
a cura di Livia Montagnoli