C'era una volta la Londra del dopo maturità, quella delle lunghe estati da cameriere per imparare la lingua, quella dell'anno sabbatico che per molti è stato il trampolino di lancio di una carriera nella food & bar industry, per altri un periodo di passaggio da raccontare con nostalgia e quel po' di eccitazione una volta tornati a casa. Era una Londra che attirava giovani da ogni parte d'Europa, destinazione di tanti italiani, soprattutto, che vedevano nella capitale britannica la città piena di potenzialità e di occasioni, in cui fare esperienza del mondo, vivere quel po' di cosmopolitismo e lasciarsi alle spalle il soleggiato provincialismo tricolore. C'era una volta quella Londra, non c'è più. Nel dopo Brexit, infatti, si è perso un tassello. Proprio quello che ne faceva la città più internazionale e brulicante d'Europa, richiamo di giovani e meno giovani che volevano assaporare un futuro diverso. Tutto questo se ne è andato con l'addio all'Europa che, in combinata con i postumi della pandemia, ha rispedito a casa tantissimi che si erano trasferiti in terra d'Albione in cerca di fortuna. Il colpo di grazia, spiegava qualche settimana fa The Guardian, l'hanno dato le regole entrate in vigore da poco più di un mese, che hanno alzato la soglia di stipendio per i visti di lavoro da 26.000 a 38.700 sterline l'anno. Un aumento che si traduce con una selezione all'origine dei nuovi arrivati che sta cambiando, di fatto, il profilo di certi lavori e contemporaneamente anche quello della città: non è più la Londra in cui i giovani approdavano da ogni Paese in cerca di lavoro, avventure e divertimento, dando un'energia incredibile a ogni angolo di strada. Adesso il peso della metropoli, con i suoi costi altissimi, sta disperdendo quello spirito che dai tempi della swimming London in poi aveva contribuito a costruirne il mito.
La novità: camerieri inglesi
Per Matteo Aloe di Berberè - all'attivo (con il fratello Salvatore) una manciata di pizzerie, di cui due a Londra - la spiega così: «Prima era più semplice trasferirsi, molti arrivavano appoggiandosi da un amico o un parente, magari cominciavano a lavorare dal livello più basso, ma in poco tempo potevano salire e occupare anche ruoli di responsabilità in aziende strutturate». Oggi invece per avere un visto di lavoro devi avere già in tasca un contratto da più di 38mila sterline, che non è un contratto base, da cameriere alla prima esperienza, ma rappresenta uno sbarramento importante che ostacola l'arrivo di lavoratori non professionalizzati o che non conoscono già il mercato britannico, perché puoi essere anche un bravissimo head chef o store manager, ma se non consoci le leggi inglesi, la lingua, il mercato del lavoro, le abitudini, persino i software UK, è inutile.
«Con una soglia minima così alta, o sei certo di avere una figura giusta e con l'esperienza sufficiente, oppure non ti azzardi a chiamare qualcuno dall'Italia, rischi di mettere in difficoltà lui e l'azienda». Così ci si rivolge al mercato interno, e questa è una novità: «prima non capitava di assumere il diciottenne inglese, ora sì, ma il loro approccio al lavoro è totalmente diverso anche da me che ho 38 anni; c'è un divario enorme: per loro il lavoro è qualcosa in più, ci sono aziende che si stanno strutturando per adeguasi alle esigenze di persone che magari vengono tre mesi, e poi non si presentano più, che non lavorano il sabato e danno la loro disponibilità indipendentemente dalle esigenze del locale, in modo simile a come succede per i rider in Italia, anche perché qui le tutele sono poche, soprattutto per i giovani che entrano nel mondo del lavoro. Sono pochi quelli che cominciano nella ristorazione scegliendola come percorso lavorativo pluriennale». Questo non riguarda solo il mondo della ristorazione, ma più in generale quello dei servizi e dei lavori poco professionalizzati - un altro esempio è quello delle consegne che soffre della stessa crisi - esattamente come si era ventilato qualche anno fa. «L'immigrazione in realtà è aumentata, ma quella di manager, ingegneri, lavoratori di fascia alta; non ci sono più i neo diplomati o laureati che passano solo per qualche mese. Non so se era questa la volontà politica, ma si stanno accorgendo ora che manca forza lavoro. Mancano certi profili».
Nel mondo dell'ospitalità il risultato è evidente: «prima i ristoranti italiani avevano il 90% dello staff italiano; se mettevo un annuncio di ricerca di personale, rispondevano quasi tutti italiani, ora saranno il 20%». Questo però riguarda tutti, a prescindere dalla nazionalità, se non fosse che gli italiani – insieme a spagnoli e polacchi (questi ultimi soprattutto in cucina) - erano la maggior parte dei lavoratori non britannici nel settore, «per questo si sente di più la loro mancanza».
Le due sedi di Berberè di Londra hanno head chefs e molti dipendenti italiani, «non abbiamo un grande turn over, fortunatamente possiamo contare su uno zoccolo duro di persone italiane che sono con noi da anni, ma se prima l'80% del personale era italiano, ora siamo al 40%». Dietro al pass, davanti al forno, l'italianità è un vantaggio, soprattutto nelle figure chiave «non perché gli italiani siano più bravi, ma perché è più facile trasmettere certi valori in cucina, nelle ricette o nell'esecuzione. Banalizzando: un italiano già conosce la differenza tra un pomodoro e l'altro. In ogni caso anche se oggi siamo abbastanza sereni, se guardiamo al pre Brexit ci rendiamo conto di come stanno andando le cose e vediamo la differenza». E per chi, come loro, è in cerca del locale giusto per aprire la terza sede il pensiero c'è. Pertanto se gli chiedi se era meglio prima, la risposta è: «Per me sì».
Molta differenza la fa ovviamente l'inserimento all'interno di un contesto ben preciso: per Arcangelo Dandini, per esempio, che ha aperto due anni fa Garum a un passo da Chelsea non ci sono mai stati problemi a reperire il personale, anche perché il suo socio in loco, Francesco Farinel conosce bene quel mercato di cui parlava Aloe: da oltre 10 anni lavora nel settore della ristorazione a Londra, ultima tappa, l'Harry's Bar. Anche grazie a lui la ricerca di personale italiano non è stato un problema, «anzi – dice - abbiamo faticato un po' quando abbiamo aperto, ma ora potremmo aprire altri due di Garum, tante sono le richieste che abbiamo». Certo, i costi di Londra rischano di essere proibitivi, «la bassa manovalanza si trova meno», ma per la sua esperienza i problemi ci sono molto più in Italia che a Londra. «Sarà che da noi siamo ormai troppi e il mercato è saturo: trovare personale è impossibile, anche per questo ormai ora non mi vedo ad aprire ristoranti, ma solo street food».