«Non è sempre facile ritrovare la strada per fare il cuoco in città se a parlare non vuoi che sia l’ego di chi cucina, ma i gesti e le idee al servizio di un significato libero, indipendente e senza compromessi». A dirlo è Cesare Grandi, torinese, classe 1988, chef e patron illuminato de La Limonaia di Torino. Siamo nel quartiere Pozzo Strada, lontano dal centro cittadino dove, tra i palazzi della zona, in un interno cortile, dal 2013 ha trovato vita questo ristorante. Varcato il cancello di ingresso, la sorpresa: tra piante e limoni, come se ci si trovasse in un’antica orangerie, ecco il dehors del locale, una grande vetrata con cucina a vista e, in un ex magazzino, quello che oggi è uno dei ristoranti più amati della città, arredato come una casa con mobili e tavoli di legno, quadri, tanti libri, un pianoforte.
L’anima del locale rispecchia quella di Grandi, chef autodidatta con alle spalle studi classici, una mancata carriera in medicina (vuole occuparsi degli altri da un’altra prospettiva, quella del cibo e della tavola), una laurea in Scienze Gastronomiche e una in Agraria in tecnologie alimentari.
Un ritorno al passato (senza mode)
Quella de La Limonaia è una cucina italiana, sia nelle materie prime che nei gusti, nelle tecniche di cottura, negli utensili utilizzati. «Sono molto legato ai prodotti – spiega lo chef - in un percorso abbastanza istintivo e inconsapevole. È come se un determinato vegetale o una materia prima animale chiamasse un modo e un tempo di cucinarlo specifico: in cucina differenziamo tanto, perché ci piace, ma anche perché il mestiere del cuoco è quello di cuocere, è nell’etimo del nome». E così coccio, rame, terracotta, brace, legna e fuoco diventano elementi primari di una cucina libera e indipendente, lontana dalle mode del momento e focalizzata sulle esigenze della valorizzazione dei prodotti.
«Sono anche riuscito a trovare - aggiunge Grandi – uno degli ultimi stagnini che lavora nel canavese, nella zona di Ivrea: è lui a sistemare le pentole di rame che acquisto nei mercatini e che mi permettono di cucinare nel modo in cui voglio». L’impiattamento diventa, dopo i primi anni di rodaggio, una conseguenza del gusto: l’estetica conta, certo, ma Cesare Grandi si concentra sui gradi di cottura, la precisione, la tecnica, il sapore.
Una cucina che può definirsi ancestrale proprio per i metodi di cottura: sulla brace ecco l’agnello, la pecora, gli scorfanetti da 3 etti, il piccione. «Gli scorfani vengono spennellati con la pastella, fritti in olio evo, lasciati riposare e poi messi sulla brace dopo averli laccati con un ristretto di zuppa di pesce a cui aggiungiamo un intingolo di coniglio che cuoce alla ligure con le verdure. Il piccione è cucinato intero sulla brace, poi passa nella padella di ferro, quindi viene lasciato riposare. Con cuore, fegato, alette e ritagli realizziamo un ragù per accompagnare lo spaghetto al burro e poi serviamo il tutto su un’alzatina dove si trovano i diversi tagli anatomici: petto, coscetta, un contorno di verdure che varia a seconda delle stagioni e una salsa alla cacciatora», spiega sempre lo chef.
Dalle campagne
Gli ingredienti, dicevamo, sono alla base di ogni preparazione. Qui si seguono la stagionalità e la sostenibilità: non si usano salmone, tonno di grosse pezzature, ma si scelgono pesci di piccola taglia e “Cerchiamo fin dove possiamo di comprare dove conosciamo, ma comunque se non conosciamo andiamo a costruire una relazione che poi diventa rapporto commerciale. «La prossimità però – aggiunge Cesare Grandi – ha valore come criterio su alcune cose, meno su altre. Va affrontata con criticità e consapevolezza e non mi sento in colpa se mi capita di scegliere pesci che non provengano dal Mar Ligure o l’olio evo che arriva dall’Abruzzo».
L’ispirazione vera della cucina de La Limonaia oggi arriva dai prodotti, dalle ricette tradizionali, dalle riflessioni ipercritiche sul senso, ama ricordare lo chef. «Torniamo all’antico e sarà un progresso», ripete raccontando di come abbiano ripreso piatti come il borlengo (sottili crepes tipiche dell’Emilia-Romagna), il fiore di zucchina proposto come una cotoletta alla bolognese, le zuppe di legumi, l’albese come un saltimbocca (servito con il Culatello di Spigaroli). La scelta delle materie prime segue l’unico criterio della qualità: dalle farine molite in un piccolo mulino alimentato solo ad acqua e fatto ancora interamente in legno e pietra, alle verdure degli orti intorno a Torino dei contadini della tettoia di Porta Palazzo, alle proteine delle montagne, al pescato della notte della Liguria, della Francia e del Mediterraneo, all’acqua dolce della Valle D’Aosta.
La cucina italiana di oggi
«Cerchiamo di portare in città – aggiunge Grandi - la sincerità di prodotti che l’ambiente urbano complica e carica di sovrastrutture. Prendiamo l’agnello, arriva da Comboscuro in Val Grana, dove l’Azienda Agricola Meiro di Choco lo alleva insieme alle pecore. Questa famiglia vive di allevamento e di raccolta di erbe selvatiche e aromatiche con cui realizzano tisane. Lavoriamo con loro di anno in anno, programmando quello che ci occorre e compriamo gli animali interi per salvaguardare un sistema, assumendoci la responsabilità di un lungo periodo e aiutandoli acquistando anche secondo le loro necessità. La pecora, per esempio, è un animale che mi piace molto, è più sostenibile di altri e, se ha vissuto e mangiato all’aperto, ha una carne super delicata ideale anche da mangiare cruda. Ne facciamo salumi, sughi da mettere in carta in accompagnamento ai primi, ma può diventare anche il ripieno per i nostri gnocchi arrostiti serviti con kefir, albicocche e mosto cotto».
Cresciuto con idoli come Davide Scabin, Fulvio Pierangelini e, oggi, attento alla cucina di Paolo Lopriore, Cesare Grandi, a tratti timido e molto riflessivo, ama interrogarsi sul senso del mestiere del cuoco e della cucina, sul modo di approcciarsi ad essa legato spesso alle disponibilità economiche.
«Realizzare una cucina italiana da purista oggi – aggiunge – è complesso soprattutto in attività di ristorazione aperte al pubblico che spesso dimostra di avere palati annoiati ed è inevitabile ci siano delle contaminazioni. Ci sono però dei tratti emblematici che distinguono cucine anche molto simili come quella italiana e francese: mi riferisco alle salse non legate. Oltralpe è un errore tecnico enorme, da noi no, fa parte della tradizione della cucina regionale, di casa: quando si metteva l’arrosto in tavola la salsa non era legata, i nostri fondi e jus erano tutti intingoli, succhi di carni, verdure, umori di pesci a cui si univano burro, olio evo e sapori. Ecco, nella cucina de La Limonaia, si trovano gli intingoli perché mi piacciono molto e hanno un forte richiamo con l’identità culinaria del nostro passato».
La Limonaia - via Mario Ponzio, 10, 10141 Torino - Tel. 011 7041887 - Sito