«La Langa è divenuto un territorio esclusivo, dove le barriere all’entrata sono talmente insormontabili che risulta impossibile fare impresa senza indebitamenti da capogiro. Tutto questo rischia di attrarre un mondo che poco ha a che fare con l’origine agricola di queste zone e con l’artigianalità enologica: quello della finanza e dei grandi gruppi di investimento. Un pericolo che sradicherebbe l’autenticità del territorio e che avvicinerebbe drasticamente le bottiglie di vino ad altri tipi di commodities». Non usa mezzi termini, Carlo Petrini, fondatore e presidente internazionale di Slow Food che in un lungo articolo pubblicato sul quotidiano La Stampa racconta in modo disincantato delle Langhe, terre del Barolo e del Barbaresco, una delle aree enologiche più importanti del mondo, tra successo internazionale e rischio di speculazioni finanziarie, grandi ricchezze e impoverimento del tessuto sociale e identitario.
Se il coraggio sfiora l’irragionevolezza
Nel suo viaggio Petrini fa subito notare la variegata realtà produttiva di Langa, dove «c’è una buona percentuale di giovani donne e giovani uomini». Della maggior parte di loro aveva già conosciuto e intervistato i parenti. Altre testimonianze, invece, le ha raccolte tra chi non ha ereditato il mestiere dalla famiglia, «ma nella produzione del vino ha deciso di investire per passione. Ecco, di tutte queste “nuove” cantine, sono pochissime quelle nate negli ultimi 20 anni. E qui sorge un primo aspetto per nulla irrilevante: negli anni Duemila, aprire una cantina in Langa è divenuta un’operazione il cui coraggio sfiora l’irragionevolezza».
Le Langhe come Bordeaux?
Il tema principali sono i prezzi dei terreni, oggi infatti per acquistare un ettaro vitato di uva nebbiolo da Barolo possono servire fino a 4 milioni di euro, «un valore immenso soprattutto se rapportato ai 4-5 milioni delle vecchie lire necessari nel 1970)». Nei decenni poi si è realizzata una divaricazione del valore fondiario rispetto alle aree confinanti. Come nel caso del vicino Roero e dell’adiacente Monferrato dove il costo di un ettaro vitato è decine e decine di volte inferiore. Petrini parla di «crescenti effetti speculativi» e riporta un parallelismo collegato alla Francia: «Voglio riportare l’esempio di un’altra zona di grande eccellenza vitivinicola, forse quella con maggiore storia alle spalle, che è ancora alle prese con una crisi in cui anche gli aspetti identitari sono venuti meno. Mi riferisco al bordolese, dove l’inacessibilità del valore del terreno e del costo delle bottiglie - dettata specialmente dai Premiers Crus - hanno fatto collassare un sistema che era arrivato allo stremo della speculazione. Il risultato: oggi, con non pochi malcontenti, il mercato si sta riassestando al ribasso. Si è dovuti passare attraverso pesanti manovre di assestamento, compresa l’espiantazione di ettari interi di vigna».
A fronte di un valore dei terreni «dopato» e della speculazione sulle bottiglie», scrive Petrini, «ho potuto toccare con mano che la comunità si trova molto impoverita, non riconoscibile rispetto alla vita di Langa di una volta. Ciò rende evidente che l’eccessiva ricchezza privata riduce la prosperità pubblica. Quello che per molto tempo ha reso vivo e attraente questo angolo di Piemonte, ancor più del vino, era l’approccio di condivisione e la socialità che si poteva respirare in ogni angolo di paese. I bar, le botteghe, le osterie, tutti i luoghi in cui la comunità si ritrovava sono spariti e con loro anche forti tratti identitari. Dirò di più, il mondo enologico era perfettamente integrato a quel modello sociale, mentre oggi il divario che vige tra comunità e comparto produttivo è fin troppo evidente».
Secondo il fondatore di Slow Food, tenendo conto anche dello spettro dello spopolamento che colpisce tante zone d'Italia, «dobbiamo quindi utilizzare la fantasia per ricreare nuove forme di socialità, più moderne e inclusive. Solo così si potranno preservare anche quegli agi più materiali, che da soli non possono generare la felicità nell’essere umano».