Detta anche in dialetto uregia d’elefant: un classico sotto alla Madonnina, protagonista di dispute storiche e di interpretazioni diverse. Un must di Gualtiero Marchesi ripresa poi dai suoi allievi, ma anche proposta nelle trattorie in forma classica. Storia e sapori di un piatto storico e gustosissimo.
Ancora una volta c’è un prima e un dopo Marchesi
Perché non poteva che essere il “divin Gualtiero” a studiare un classico del ricettario milanese-borghese per traghettarlo nella cucina d’autore, servendo la costoletta nel suo premiatissimo ristorante e reinterpretandola col suo genio. E se oggi sia quella tradizionale sia le versioni più creative non perdono fascino, è merito suo. “Non sono mai stato un cuoco che si agita – racconta Davide Oldani, a lungo allievo di Marchesi – ma quando arrivava la comanda per una costoletta andavo in panico. Soprattutto nel periodo in cui Marchesi aveva creato la Costoletta 2000, tagliare i cubi in modo perfetto e cuocerli era difficile. E quando meno me l’aspettavo, spuntava lui dietro a controllare… Per il Maestro era un grandissimo piatto: sezionava personalmente il carrè di vitello prima che spennellassi sulla carne grasso di rognone, sciolto in acqua, per una perfetta frollatura. Era un rito, emozionante se ci penso”.
Chiamiamola costoletta
In effetti, si fa presto a dire cotoletta e a considerarla un secondo come tanti o un piatto unico. Intanto chiamiamola “costoletta” ossia piccola costola. Poi sottolineiamo che se il pollo e il maiale regalano evidenti soddisfazioni, ben impanati e ben fritti, solo quella di vitello merita somma attenzione. Certo, liberata da rucola, pomodorini e da quei fronzoli che la rovinavano negli anni ’80. E a dire il vero anche sulla fettina di limone ci sarebbe da discutere per ore: non a caso è stata tolta di scena dai cuochi più avveduto.
È nata prima la costoletta o la wiener schnitzel?
Nella logica e positiva evoluzione di questa preparazione, non si è però risolto l’amletico dubbio ancestrale. Dubbio che questo piatto condivide con tanti altri piatti celebri: le reali origini. Insomma, è nata prima la costoletta alla milanese o la wiener schnitzel diffusissima nella Mitteleuropa? Mancano i testi sacri e in quei pochi in cui l’argomento figura (dal Medioevo al Risorgimento) non si trova una risposta certa. Curiosamente, nella De.Co. (la denominazione comunale) assegnata dalla Giunta di Milano dieci anni fa, viene citata come antenata la lombolos cum panito che Pietro Verri riprodusse nella famosa Storia di Milano: un piatto servito in un pranzo offerto nel 1134 da un abate ai monaci di Sant’Ambrogio. Pareva una certezza, ma esperti medievali hanno alla fine sentenziato: quella mangiata dai monaci era semmai simile a una scaloppina servita con il pane.
Altra discreta bufala? Una lettera ufficiale del Conte Attems – aiutante di campo del mitico feldmaresciallo Radetzky, governatore del Lombardo-Veneto – in cui si racconta di una cena milanese dove figurava uno “straordinario piatto a base di vitello impanato nell’uovo e fritto nel burro”. Da qui l’esportazione a Vienna, sollecitata dall’Imperatore in persona e quindi la primogenitura della costoletta alla milanese – poi copiata dagli austriaci – giusto ai prodromi del Risorgimento.
Tutto molto affascinante, ma non si hanno documentazioni certe non solo della contestualizzazione della storia e della lettera, ma neppure del Conte. Il quale però venne incredibilmente citato in fior di guide gastronomiche – come quella del Touring Club nel 1969 – che a loro volta hanno creato una base quantomeno incerta per altre pubblicazioni di cucina. Tra l’altro, risulta arduo pensare che Francesco Giuseppe, con un Impero gigantesco in via di disgregazione, trovasse il tempo per occuparsi di gastronomia! Dall’altra parte della frontiera, ci sono invece storici austriaci convinti del fatto che i cuochi milanesi abbiano interpretato o plagiato proprio la ricetta che veniva preparata dai loro colleghi per gli ufficiali imperiali. E in ogni caso, la panatura e la frittura degli alimenti è già guarda caso presente nei testi di cucina austriaca sin dal 1719, sia per le verdure che per le cervella di vitello.
E se fosse francese?
C’è anche un’interessante teoria, basata sull’importazione dalla Francia di una costoletta – questa sì riprodotta in ricettari del 1735 e 1749 – basata sulla marinatura della carne prima dell’impanatura. Se valida, la costoletta sarebbe dunque stata lasciata ai milanesi dagli invasori napoleonici mentre a Vienna sarebbe arrivata grazie a Maria Luigia, duchessa austriaca di Parma e moglie di Napoleone. Insomma, uno dei pochi piatti che ci permette di raccontare mezza storia d’Europa. Il nome – secondo Massimi Alberini, storico della gastronomia – deriverebbe dal francese cotolette, a indicare il taglio della lombata di vitello utilizzato. Può essere, ma anche qui manca la prova decisiva. Al di là di leggende e congetture, sui seguenti tre elementi non esistono dubbi riguardo alla storia della nostra costoletta.
I dubbi su questa tesi
Il primo: l’anno, 1855, in cui Giuseppe Sorbiatti riporta per la prima volta la ricetta ufficiale delle costoline di vitello alla milanese nella sua monumentale Gastronomia moderna. Il primo riferimento alla cutelèta, si trova invece nel dizionario milanese-italiano del 1814, opera di Francesco Cherubini e pubblicato dalla Regia Stamperia Imperiale di Milano. In netto anticipo rispetto alla prima apparizione della Wiener Schnitzel in un libro di ricette praghesi del 1831.
Il secondo: ci sono differenze sensibili tra i due piatti perché la costoletta può essere servita bassa o alta, con o senza osso mentre la wiener schniztel è solo battuta e senza osso. E nel primo caso, per quella “seria” si usano il vitello e il burro chiarificato mentre i cuochi germanici prediligono maiale e strutto.
Il terzo: placatisi gli spiriti risorgimentali, il nemico Radetzky tornò nella sua amatissima Milano dove morì nel 1858 senza aver mai subito ritorsioni dai concittadini che iniziavano già a essere stufi dei “liberatori” piemontesi. E sino all’ultimo giorno si gustò la costoletta, preparata dall’ ex-amante e poi compagna Giuditta Meregalli. Già dal nome, una garanzia di buona cucina lombarda.
La costoletta contemporanea
Cosa è oggi la costoletta alla milanese? Sicuramente uno dei “tre vertici” della cucina della città, fatta peraltro di prodotti non certo popolari. Il risotto allo zafferano non era per tutti, il panettone neppure – prima dell’industrializzazione, beninteso – per non parlare della costoletta che nella versione con il vitello ha rappresentato un premio per generazioni di lombardi, cresciuti a pollo e maiale impanato. Con la fetta di pane fritta che utilizzava l’avanzo dell’uovo per la panatura e del burro nella padella. E anche adesso, al ristorante, non si trova certo a buon mercato. “Non fa guadagnare quasi nulla al ristoratore perché occorre una carne perfetta”, spiega Andrea Provenzani, chef-patron del milanese Il Liberty. Per gli appassionati questo è uno dei templi della costoletta, proposta a 30 euro (nella media dei migliori locali).
“Ma se uno crede in questo piatto, lo deve fare senza compromessi e quindi non può venderlo come altri. Io lo considero “evolutivo” per un cuoco perché si impara a prepararlo perfettamente solo col tempo, giorno per giorno, costoletta dopo costoletta, curandone i dettagli. Qui conta più l’esperienza del talento, difatti mi arrabbio molto se vedo uno dei miei ragazzi che la cucina distrattamente, come fosse un piatto come tanti. Invece merita sentimento”. Ha ragione. Perché nella Nuova Milano – che si diverte con le aperture a raffica e (se può e vuole) mette a confronto le Suggestioni di Eugenio Boer con il Menu a Specchio di Matias Perdomo – uno dei pochissimi veri derby si gioca proprio sulla costoletta. E ogni tanto se lo possono permettere anche i non foodies. Magari la domenica in famiglia, meglio ancora se fuori porta.
Bassa o alta?
Ognuno ha le sue visioni. La “bassa” è obiettivamente la più gradita dai clienti. Quella “alta” raccoglie invece le simpatie dei gourmet. E poi c’è l’uregia d’elefant – termine dialettale che ne sottolinea la dimensione – che fa storcere il naso agli integralisti ma è intramontabile, adorata per esempio dai più piccoli. Si discute a tavola, si fanno classifiche, si portano parenti e amici a provare quella preferita. Ed è un richiamo anche per chi viene da lontano, che siano consumatori o cuochi. Se per i sempre più numerosi turisti stranieri è un must assaggiarla – e convince subito, ben più del risotto – per chi apre un nuovo ristorante a Milano diventa stimolo importante come hanno mostrato Giancarlo Perbellini e Niko Romito.
Ma è banco di prova anche per tantissimi Marchesi boys: Andrea Berton la elevò nel periodo migliore di Trussardi alla Scala, Carlo Cracco continua a giocarci intorno togliendo e aggiungendo, il già citato Oldani che nel primo D’O – in nome della filosofia economica alla base della Cucina Pop – non la teneva in carta, ora l’ha resa protagonista della Milano nel Piatto, recente signature dish. Per non dire poi dei tantissimi cuochi lombardi che amano proporla nella versione classica. “Non esiste un piatto della nostra cucina che susciti più interesse e più discussioni tra i clienti italiani – racconta Giovanni Traversone, chef-patron della Trattoria del Nuovo Macello, altra tappa fissa dei costoletta-addict – sorrido pensando che abbiamo impiegato due anni dall’apertura per metterla in carta, spinti dalla voglia di riscoprire la storia culinaria di Milano. Ora ne serviamo sino a trenta al giorno, basate sul vitello italiano o olandese, frollato per un mese. Alte e ben rosolate in padella: un lavoro non facile per i più giovani, abituati al sottovuoto e all’assemblaggio. Però se si appassionano al piatto, non lo molleranno mai: cucinare una costoletta come si deve fa sentire un cuoco molto bravo e dei certo di far felice il cliente. Per me è un comfort food di alto livello. Me ne sono innamorato quando ho visto quanto ci lavorasse Marchesi a Erbusco: è stata una vera folgorazione”.
Siamo tornati al punto di partenza, al Maestro che ne seguiva la preparazione alle spalle dei suoi ragazzi in via Bonvesin della Riva come in Albereta. Con estrema attenzione ma anche un leggero senso di insoddisfazione. “È l’unico piatto che ho imparato da mio padre: amo moltissimo la costoletta ma avrei voluto inventarla io” diceva. Non l’ha inventata, ma sicuramente l’ha re-inventata lui.
a cura di Maurizio Bertera
foto di Marco Varoli
La mia preferita (lo dissi anche in campagna elettorale!)
Non è un mistero che la costoletta alla milanese sia il mio piatto preferito: lo sanno i miei amici da sempre e lo dissi pubblicamente durante la campagna per l’elezione a sindaco di Milano. Però ammetto di non cimentarmi nella ricetta, mentre mi considero un buon specialista del risotto giallo. La costoletta è uno dei simboli culinari di una città che negli ultimi anni ha dato grande importanza alla cucina e ai suoi interpreti, diventando la numero uno in Italia per qualità e quantità dell’offerta. Prima di Expo 2015 ero un po' prevenuto sull’avanzata modaiola dei cuochi. Poi sono diventato loro amico: Andrea Berton, Davide Oldani, Carlo Cracco... Li trovo straordinari: lavorano tantissimo, competono ma sono amici fra di loro. Sono la bandiera della cucina italiana nel mondo. Poche settimane fa, il Comune ha premiato con l’Ambrogino d’Oro altri due grandi chef: Massimo Bottura che nel quartiere di Greco ha messo a punto quella straordinaria iniziativa del Refettorio, poi portata nel mondo, e Claudio Sadler che da oltre 40 anni lavora benissimo a Milano. È un segnale di quanto la nostra città consideri importante l’opera di chi fa cucina. E gli chef insegnano che bisogna evitare gli sprechi alimentari: è un tema fondamentale e l’esperienza di Expo mi ha lasciato la convinzione che bisogna continuare a impegnarsi su vari fronti, per esempio nelle scuole e con la grande distribuzione. Tornando alla costoletta, se è vero che non la preparo a casa, mi diverto a scoprire sempre nuovi ristoranti dove la cucinano bene.
a cura di Giuseppe Sala, Sindaco di Milano
Articolo uscito nel Magazine di febbraio del Gambero Rosso. Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store
Abbonamento qui.