“The gin and tonic has saved more Englishmen’s lives, and minds, than all the doctors in the Empire”. Per partire a parlare di un’istituzione come il Gin Tonic, non si può che scegliere il mitico aforisma coniato da Winston Churchill (“ha salvato più vite e menti di quanto non abbiano fatto i medici”) che riassume in un motto i motivi del successo di questo cocktail, tanto semplice quanto fondamentale nella storia del bere miscelato. Ma anche della salute britannica, nel vero senso della parola: quando in epoca coloniale la malaria decimava le truppe inglesi, l’acqua tonica inventata da Jacob Schweppe nel 1783 – unita a una buona dose di Gin – era il trucco migliore per far assumere l’amarissimo chinino (l’anti-malaria) ai soldati.
Dalla semplicità alla complessità
Vero e proprio rito sociale, drink identitario e capace di attraversare le epoche, il G&T è arrivato fi no a noi praticamente invariato. Poi qualcosa è cambiato: il boom dei Craft Spirits ha rivoluzionato il settore. Da un lato è esplosa la domanda globale, dall’altro è stata distorta la narrazione: un drink semplice è infatti diventato inutilmente complesso e la schietta sostanza si è trasformata in una valanga di marketing. Tutto, molto spesso, a discapito di un consumatore che, voglioso di scoprire, si lascia trascinare in una narrazione spesso fasulla o che comunque non ha gli strumenti per interpretare.
Il “Rinascimento” del gin
Tutto – il capitolo che porta alla fi ne del Gin Tonic – comincia col suo “Rinascimento” legato all’uso di botaniche “non convenzionali” nei primi anni 2.000. Un’esplosione di versioni e tendenze che però ha di fatto svuotato la semplicità di un grande classico. Tanto che il G&T oggi è senza dubbio uno dei drink più in ascesa del momento, con addirittura un fi orire di Gintonerie o GinTonicherie (locali con ampissima selezione di Gin) che servono le centinaia di nuove etichette che nascono ogni anno con aromi e botaniche tra le più svariate e presentate con garnish di tutti i tipi. Se fi no a trent’anni fa il Gin Tomic era un drink da battaglia, da consumare in discoteca senza troppe pretese, a partire dagli anni ’90 qualcosa ha iniziato a cambiare. La nascita di Bombay Sapphire, che sulla bottiglia blu indicava le botaniche e il metodo di produzione, ha portato il consumatore a interrogarsi su quale fosse l’aromatizzazione del gin. Di lì a una decina di anni, il salto: Hendricks è il primo a proporre botaniche non tradizionali. Nascono i Contemporary Gin, termine con cui oggi si indicano tutti quelli che usano botaniche non tradizionali, una tendenza che sempre di più è divenuta sinonimo di territorialità.
Quanti gin ci sono in Italia? E quante distillerie?
Se il gin vive il suo rinascimento, allora, perché questa stessa cosa ne decreta la fi ne? In effetti, c’è qualcosa che non torna. C’è una superfetazione che non corrisponde più a metodi di produzione diff erenti, a scelte di impresa particolari, a fi losofi e di vita e di bevuta che raccontano chi produce. È Claudio Riva – uno dei maggiori esperti di Craft Distilling e organizzatore di Distillo, la più grande fi era dedicata alle attrezzature per le micro-distillerie in Italia – a farci notare una prima discrepanza nei numeri di questo fenomeno. «Oggi in Italia ci sono circa 140 distillerie attive a fronte di una stima che parla di almeno un migliaio di etichette di gin sul mercato con diff usione almeno regionale. E non si contano, poi, le etichette di gin fatte una tantum per bar, associazioni, ristoranti ». Per fare un paragone col vino, sarebbe come dire se a fronte di pochi ettari di vigna avessimo un enorme numero di bottiglie di vino.
Il conto terzi e “i finti” gin
Noto bartender, giornalista e volto televisivo, Julian Biondi è anche uno tre soci della distilleria urbana Fermenthinks. Nel loro laboratorio si producono liquori artigianali e gin in stile London Dry. Qui nascono molte delle etichette “sartoriali” a base di diverse botaniche territoriali decise da imprenditori che vogliono un gin che “li rappresenti”. «Siamo in grado di lavorare anche in piccoli lotti – racconta Julian – per consentire a piccole realtà come bar o ristoranti di creare una propria linea di liquori o distillati artigianali. La produzione minima è di 150 litri, che è la capienza dell’alambicco. Due terzi dei nostri clienti sono toscani, ma abbiamo fatto etichette per aziende venete, piemontesi, siciliane e pugliesi». Quindi: il produttore è uno solo, i marchi sono diversi. Dietro a ognuno di questi gin, però, c’è una sola azienda di produzione: oggi la maggior parte dei nuovi prodotti immessi sul mercato sono fi gli di idee di marketing, realizzati da contoterzisti, spesso creati a centinaia di chilometri di distanza dal luogo la cui territorialità è vantata in etichetta. Ci sono anche diversi gin distillati all’estero che però comunicano in modo esplicito la loro italianità: tutto questo a confondere ancora di più un consumatore che si sta appena avvicinando a questo mondo. Solo per citare un esempio, basta guardare a Malfy (gin dal sounding che richiama la Costiera più famosa) e che è prodotto da una grande multinazionale come Pernod Ricard in una distilleria piemontese!
Il problema del metodo "compund"
Finora, comunque, abbiamo parlato di distillerie e di alambicchi. Ovvero, di spirits “di qualità” e di tradizione frutto di sapienza artigianale di spessore. Il Regolamento UE 2019/787 sulle “bevande spiritose” permette di chiamare Gin anche il liquore ottenuto con metodo “compound”, ovvero senza distillazione e con. Macerazione a freddo di ginepro e altre botaniche o anche solo miscelando alcol con oli essenziali e addirittura aggiungendo zucchero con la possibilità di chiamare il prodotto Dry Gin se il glucosio è in concentrazione inferiore a 0,1 grammi litro. Queste norme, in un Paese ancora molto giovane sul fronte Gin, rischia di creare confusione e anche tanta.
Si svuota di senso un liquore
Per esempio, che diff erenza c’è tra London Dry Gin e Dry Gin magari preceduto da Tuscan? Beh, si tratta semplicemente di due prodotti assolutamente diversi in tutto e per tutto. Il London Dry Gin, infatti, è un metodo di produzione attraverso distillazione che deve seguire un disciplinare molto severo (obbligatorio il ginepro, alcol metilico sotto i 5 grammi per ettolitro, divieto di aggiungere altri elementi). Il Dry Gin è un prodotto simile a un amaro o a un vermut, ottenuto per infusione o miscelazione. Se poi ci metto davanti il Tuscan, dà l’idea che si tratti di un Gin legato alla Toscana, anche se non c’è nessun obbligo di certifi care l’origine delle essenze utilizzate. Questo ha portato a far crescere tantissimo il numero dei liquorifi ci, ma non quello delle distillerie.
Botaniche senza territori
Se un Tuscan Dry Gin può essere prodotto in Veneto senza alambicco, possibile che almeno per le botaniche non ci sia alcun obbligo di origine? La maggior parte dei gin che si dichiarano “espressione del territorio”, infatti, lo fanno partendo dalla selezione di erbe e spezie locali che vengono utilizzate per il proprio gin. Ma non c’è nessun obbligo di specifi care quanto sia il rosmarino toscano utilizzato o quanti siano i limoni di Amalfi ! È possibile dichiarare di aver utilizzato limoni di Amalfi in etichetta anche soltanto aggiungendone uno per 1.000 litri di Gin e per il resto affi dandosi a un qualsiasi prodotto a costi minimi. E così, nel Paese della sostanza e della qualità, vincono il brand e il marketing. Ma che senso ha, a questo punto, dover decidere con quale delle centinaia di etichette di Gin vorrei il mio Gin Tonic? Anche perché il rischio, oggi, è che confonda maggiormente le menti piuttosto che salvarle. Alla faccia di Churchill.