Quando pensiamo alla cucina italiana, il coriandolo non è certo il primo ingrediente che ci viene in mente. Piuttosto è guardato dall’alto al basso come una spezia lontanissima da noi, e spesso, il suo sapore è considerato da molti pungente e saponoso (ne avevamo già parlato qui). Eppure, come ricostruisce la rivista online Gastro Obscura, aprendo il ricettario romano del V secolo di Apicio, si nota che questa pianta era un componente fondamentale, usato come la base di molti condimenti e chiamato appunto “Coriandratum”. Gli “chef” romani usavano sia i semi che le foglie di coriandolo per arricchire salse, insalate e arrosti. Contrariamente, nel XIX secolo, Pellegrino Artusi, ne “La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene”, considerato come una Bibbia della cucina italiana moderna, ne fa un uso marginale. Ma come mai un'erba così amata è stata praticamente dimenticata?
Un po' di storia (del coriandolo)
Il coriandolo ha origini antiche e una storia di coltivazione diffusa in Europa, Asia e Nord Africa. Già i Romani, influenzati dai Greci, lo coltivavano localmente in Italia e lo importavano dall'Egitto per soddisfare l'elevata domanda. Plinio il Vecchio, scriveva nel I secolo che l'erba era ampiamente coltivata nell'Egitto romano, e semi di coriandolo sono stati ritrovati in siti archeologici in tutta Europa, segno della sua diffusione e utilizzo. Principalmente per tutta l’epoca romana era utilizzato come condimento e, se miscelato a cumino e aceto strofinato sulla carne, fungeva da conservante alimentare.
Con la caduta dell'Impero Romano, il coriandolo iniziò a perdere popolarità. Diversi fattori hanno contribuito a questo declino, tra cui le influenze delle tribù germaniche, che non avevano la tradizione di usare il coriandolo, si combinarono con un cambiamento nelle preferenze culinarie. Le spezie esotiche come la cannella e il cardamomo, costose e difficili da reperire, divennero simboli di status, relegando il coriandolo, che invece era largamente reperibile in Italia, a un uso limitato. «Culturalmente, non era un'espressione di ricchezza», afferma Moyer-Nocchi, storica della cucina presso l'Università di Siena, su Gastro Obscura. Invece, spezie asiatiche come la cannella e il cardamomo, importate da lontano a caro prezzo, sono diventate simboli di status medievali. Inoltre, il sapore distintivo delle foglie di coriandolo non si armonizzava con le nuove tendenze gastronomiche del Rinascimento italiano, che prediligevano ingredienti importati come l'acqua di rose.
La spezia dimenticata
Nel corso dei secoli, l'uso del coriandolo continuò a diminuire. Mentre i suoi semi trovavano ancora qualche applicazione in pasticceria e nella conservazione degli alimenti, le foglie scomparvero quasi completamente dalle ricette. Autori rinascimentali come Pietro Andrea Mattioli descrivevano le foglie dall'odore sgradevole, paragonandole alle cimici. Quando l'Italia moderna emerse nel XIX secolo, il coriandolo non fu recuperato nella nuova identità culinaria nazionale. Oggi, gli italiani vedono il coriandolo come un ingrediente straniero e lontanissimo. Karima Moyer-Nocchi, intervistata da Gastro Obscura, afferma che il coriandolo non fa più parte della "grammatica culinaria" italiana, ma che un tempo era un elemento essenziale della cucina romana, oggi il coriandolo è quasi scomparso dalla tavola italiana, ed evidenzia che il coriandolo non è l'unica erba che ha visto fluttuazioni di popolarità in Italia nel tempo.
Ad esempio, la maggiorana era un ingrediente molto comune, ma oggi non viene più automaticamente associata all'Italia, inoltre, alcuni degli aromi usati dagli italiani contemporanei per caratterizzare la loro cucina non sono realmente di origine italiana: il basilico, per esempio, proviene dall'Asia ed è entrato a far parte della tradizione culinaria italiana solo qualche centinaio di anni fa. «È una presenza relativamente recente, eppure è percepito come tipicamente italiano». Questo riflette non solo l'evoluzione delle pratiche gastronomiche, ma anche il modo in cui gli ingredienti possono diventare simboli di identità culturale e cambiare a distanza di pochi secoli.