All’indomani del giuramento del governo Draghi, il settore primario ribadiva al nuovo Premier le priorità per l’agricoltura italiana, attraverso le richieste di Agrinsieme. Tra queste, la necessità di sostenere l’export agroalimentare made in Italy con un approccio sistematico e di lungo periodo, per essere veramente competitivi e contrastare l’italian sounding. Ma il fenomeno che sentiamo così spesso menzionare quando si parla dell’importanza di difendere la produzione agroalimentare italiana cos’è esattamente? E quali danni comporta per il made in Italy?
Italian sounding: cos’è
Con l’espressione italian sounding si definisce la pratica di imitare prodotti agroalimentari italiani a fini di commercializzazione fraudolenta, mediante l’utilizzo di nomi, immagini, combinazioni cromatiche (come il tricolore) che evocano inequivocabilmente l’orizzonte italiano, nel tentativo di sfruttare l’appeal dell’agroalimentare di casa nostra. Mai sentito parlare di Parmesan? E di salsa Pomarola? Per non parlare della Zottarella, imitazione tedesca della nostra mozzarella. Secondo Coldiretti e Filiera Italia, oggi il valore del “falso” alimentare made in Italy nel mondo ha superato i 100 miliardi, aumentando costantemente nel corso dell’ultimo decennio. L’export da filiera autentica, invece, vale all’Italia 43 miliardi di euro (anche questo dato, per fortuna, è in crescita continua). Dunque oggi la commercializzazione di prodotti “di tipo italiano” ha più che doppiato quella del made in Italy autentico, e due prodotti agroalimentari italiani su tre, venduti nel mondo, sono falsi.
I danni dell’italian sounding all’export
Questo determina anche una crisi occupazionale nel settore che secondo le stime di Filiera Italia ammonta a 300mila posti di lavoro in meno. Difendersi dall’italian sounding, dunque, è prioritario: se consideriamo l’intera filiera, dalla produzione alla ristorazione, in Italia l’agroalimentare vale 538 miliardi di euro, quasi un quarto del Pil del Paese (in Europa, l’Italia è il secondo Paese per incidenza del settore agroalimentare sul Pil, dopo la Spagna). E nel mondo i nostri prodotti sono particolarmente richiesti sul mercato europeo (in prima linea Germania e Francia), ma anche in Stati Uniti, Regno Unito e Giappone. A guidare la classifica delle esportazioni c’è il vino italiano, che piace soprattutto negli States, seguito da cioccolato, caffè e dolciumi. E poi pasta – cresciuta particolarmente nel 2020 - pane, frutta e ortaggi lavorati e conservati (specie alla volta del Regno Unito, con quanto ne conseguirà nei prossimi mesi, considerando i dazi doganali imposti dalla Brexit), prodotti lattiero-caseari, salumi. Sulla popolarità del made in Italy nel mondo, però, è cresciuta una vera e propria economia parallela, che sottrae significative quote di mercato alle aziende italiane (e limita l’incidenza dell’export sul fatturato nazionale), impotenti al cospetto di un fenomeno di concorrenza sleale tanto capillare.
L’inganno dell’italian sounding. I prodotti più imitati
A farne le spese, oltre al sistema produttivo nazionale, sono anche gli ignari acquirenti che all’estero si fanno ingolosire dalla presunzione di italianità di certe specialità che di italiano non hanno null’altro che una bandierina tricolore stampata sulla confezione, o un buffo nome di fantasia in lingua maccheronica. Spesso, poi, queste produzioni fraudolente prendono in prestito anche marchi di certificazione e denominazioni geografiche che dovrebbero garantire autenticità e qualità dei cibi acquistati, frutto invece di ingredienti e lavorazioni scadenti, in barba ai principi della sicurezza alimentare. Coldiretti stila periodicamente una classifica dei prodotti italiani più imitati. In testa c’è sempre il Parmigiano Reggiano, seguito da un altro classico della produzione casearia italiana come la mozzarella di bufala (penalizzata dalla difficoltà di reperire il prodotto fresco autentico in loco), presentata nei casi più estremi già affettata o grattugiata. Chiude il podio il Prosecco. Ma in top ten finiscono anche Gorgonzola, Asiago, Pecorino, e poi salame e prosciutto San Daniele. I nomi, dicevamo, sono fantasiosi, tra un cambozola e un kressecco, passando per una salama Napoli. Più in generale, il fenomeno riguarda il 97% dei sughi per pasta, il 94% delle conserve sott’olio e sotto aceto, il 76% dei pomodori in scatola e il 15% dei formaggi venduti nel mondo come prodotti italiani, soprattutto nel circuito della grande distribuzione, a un prezzo inferiore rispetto al valore medio delle specialità autentiche.
Come si combatte l’italian sounding
E negli Stati Uniti, i dazi doganali ratificati alla fine del 2019 dal governo Trump, come ricaduta dell’affaire Airbus-Boeing, non hanno fatto che peggiorare la situazione, complicando l’export agroalimentare made in Italy a vantaggio della concorrenza locale, incline a giocare sull’italian sounding. Ma la tregua di quattro mesi sancita lo scorso marzo dall’accordo tra Ursula von der Leyen e Joe Biden promette di dare nuovo slancio soprattutto al settore caseario. Più in generale, oltre alla promozione del made in Italy operata per via istituzionale e privata – efficace per sensibilizzare consumatori stranieri che spesso non sanno distinguere tra l’autentico e il falso – e all’utilizzo intelligente della tecnologia (come la certificazione blockchain), è importante pianificare una strategia politica e diplomatica strutturata. L’italian sounding si contrasta innanzitutto dichiarando illegali i prodotti che cercano di imitare le specialità tricolore. E questo è possibile stipulando accordi bilaterali tra l’Unione Europea (cui fa capo l’Italia per dirimere questioni di burocrazia internazionale) e i Paesi portatori di mercati strategici. Col Canada, per esempio, già esiste un trattato (il Ceta) che tutela, tra gli altri, 160 prodotti italiani a marchio Dop e Igp; con gli Stati Uniti, invece, non è mai stato stipulato un accordo bilaterale. Ma il mercato più sfidante è quello cinese, che ha da poco accolto il riso certificato di una serie di aziende italiane, dopo lunga trattativa.
La strategia istituzionale
Nelle ultime settimane si è pronunciato sul tema anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “C’è gente che vuole comprare italiano e non sa che non lo sta facendo. Con la formazione degli imprenditori e oltre 5 miliardi erogati in un anno per sostenere le imprese alle fiere e nell’export stiamo creando una nuova traiettoria per l’internazionalizzazione del Made in Italy. Negli ultimi 12 mesi sul fronte della presenza delle nostre imprese all’estero abbiamo rafforzato l’operatività e la disponibilità finanziaria. Il Fondo 394 gestito da Simest ha avuto 2,5 miliardi di risorse rotative e 1,3 miliardi a fondo perduto in un anno. E visto il gradimento delle imprese italiane stiamo lavorando per garantire nuovi stanziamenti”. Nel frattempo si lavora per potenziare il ruolo di una nuova figura specializzata: “Una parte fondamentale della strategia sono i temporary export manager, uno strumento che rafforzeremo in modo da incentivare l’azienda ad assumere figure qualificate per sbarcare sui mercati esteri”. Il riferimento normativo è invece il Decreto 34/2019, contenente “Misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi”. Oltre a istituire un registro per i Marchi storici di interesse nazionale, all’art. 32 il decreto si impegna a garantire la tutela dell’originalità dei prodotti italiani venduti all’estero, prevedendo per i consorzi nazionali un’agevolazione pari al 50% delle spese sostenute per la tutela legale dei prodotti colpiti dall’italian sounding.
a cura di Livia Montagnoli