Anche da qui sono i viticoltori locali a chiamare il barolo l’Aglianico del Nord. Storie ed etichette che raccontano passioni e profumi identitari. Nel mensile di luglio del Gambero Rosso siamo andati alla dell'Aglianico del Vulture. Qui un assaggio.
Il Vulture
Il Vulture è un gigante buono. Perché buoni sono i vulcani che dormono da millenni ma restano lì a infondere vita, attraverso il sale delle loro terre, la ricchezza delle loro acque, la brezza dei loro venti. E un calore, un’energia che dev’essere unica se poi certe cose, anche enologicamente parlando, accadono soltanto sulla loro pelle. Si impone alla vista con una cresta tagliente, oltre i 1.300 metri d'altitudine per la cima più alta, e le vesti verdi, talvolta smeraldo. Più in basso i laghi che colmano i crateri: da una parte la Puglia, dall’altra la Campania, qua sotto la Basilicata che ne risulta protetta. È dalle pendici di questo gigante sopito, ma anche dai suoi massicci fianchi (coltivati fin sopra i 600 metri), che nasce l’Aglianico del Vulture, il vino che al vulcano si appella per la Doc del 1971, poi Docg, figlio dei comuni di Acerenza, Atella, Banzi, Barile, Forenza, Genzano di Lucania, Ginestra, Lavello, Maschito, Melfi, Montemilone, Palazzo San Gervasio, Rapolla, Rionero in Vulture, Ripacandida, Venosa, tutti nella provincia di Potenza.
Le caratteristiche dell'Aglianico del Vulture
L’uva, a bacca rossa, è esigente fin dai tempi di maturazione, ma poi succosa, generosa; l’origine del suo nome si perde nel tempo ed è imprecisata: molti hanno pensato alla matrice greca di vitis Hellenica, oggi non ne siamo più sicuri. Studi recenti hanno formulato la credibile ipotesi che ricondurrebbe il nome (arricchito dal suffisso prediale -anicus) alla produzione di vino che la gens romana Allia, famiglia di imprenditori edili con vasti possedimenti anche in Lucania commercializzava nelle anfore da loro stessi prodotte. Ma con chiunque se ne parli, tra i locali, un messaggio emerge chiaro: non solo d’uva si tratta, ma del sangue e della storia di questa terra, che forse proprio nel suo vino rubino, caldo e fragrante eppure asciutto, sapido, elegante, trova una propria sintesi culturale, come unico specchio che sappia racchiudere il caleidoscopio delle sue tante anime. “Il Barolo del Sud”, si diceva tra gli appassionati, “o forse il Barolo è l’Aglianico del Nord”, risponde chi a questo vitigno ha dedicato la vita, e un bicchiere di Vulture non lo scambierebbe con nessun altro al mondo. Per farcelo raccontare, incontriamo i produttori che nell’ultima edizione di Vini d’Italia del Gambero Rosso sono stati premiati con i Tre Bicchieri, ma è bello sottolineare come ben quattordici aziende abbiano avuto accesso alle degustazioni finali (ottenendo i Due Bicchieri Rossi), testimoniando l’ottimo stato di salute dell’enologia lucana.
Paternoster, colonna del Vulture
Il primo passo lo compiamo con Vito Paternoster, terza generazione di una famiglia cui universalmente è riconosciuto un ruolo centrale nella storia del Vulture; “E la quarta è già all’opera, con mio nipote Fabio Mecca, enologo, che al mio fianco è cresciuto camminando tra i filari”. Siamo a Barile, borgo arbëreshë di circa 3.000 abitanti, dove già nel 1925 nonno Anselmo, lungimirante, etichettò le prime bottiglie di quell’Aglianico che perlopiù si consumava in famiglia. “C’è stato poi mio padre Giuseppe, per tutti Pino Paternoster, primo enologo di casa e forse del Vulture, già studente a Conegliano Veneto nel 1945 - racconta Vito - Fu tra i promotori della Doc e portò il nostro Aglianico al Vinitaly d’esordio. Era sia manager che contadino, in un’epoca in cui i vignaioli godevano di poca gloria”.
Oggi la produzione si aggira sulle 150mila bottiglie e punta alla qualità, il marchio è solido: “Tanto che quando cominciai io, professore di educazione fisica mancato, probabilmente si vendeva più il brand che non un concetto di terroir”. Eppure è proprio il territorio a rimanere riferimento per Paternoster, ovvero la Barile solcata da cantine secolari, nonché l’artigianalità nell’interpretare il mestiere, il rispetto per la natura e la storia. “È questo il nostro compito, di cui andiamo fieri: conservare e rilanciare l’essenza del Vulture senza cedere a mode passeggere”, e una citazione va alla vulgata di fine anni ’90, quando in zona qualcuno deviò su interpretazioni più piacione: “Abbiamo novantaquattro vendemmie alle spalle e crediamo che l’Aglianico debba conservare sì la sua potenza, ma anche classicità, acidità, tannicità. E quella vena aristocratica che lo smarca da molti vini del Sud”.
La nuova cantina
Mantenendo la sua tradizione, l’azienda si avvale tuttora di piccoli, preziosi conferitori, mentre estende le vigne di proprietà a circa venti ettari. “Sono due i cru di Aglianico che affiancano il più tradizionale Synthesi, ovvero il Rotondo, che affina completamente in barrique, e il Don Anselmo”, un trionfo di frutti neri e spezie, bocca ampia e sontuosa che gli vale i Tre Bicchieri per l’annata 2016. “È un’etichetta omaggio a nonno Anselmo, che già suggeriva di differenziare le uve dei vigneti più vecchi. Per ottenere questo vino, che racchiude il patrimonio del Vulture, ogni passaggio è curato nel minimo dettaglio”. A tal proposito, una nuova cantina concepita su due piani guarda al futuro e accoglie tutte le fasi di lavorazione. “Otteniamo vini che sfidano il tempo, si veda la disinvoltura con cui il colore rubino emerge da bottiglie di lunga data, e così la vena acida, l’invidiabile persistenza dell’Aglianico”, che aiuta a tener fresco il ricordo di questi luoghi.
Di tutto ciò si è innamorata anche la famiglia Tommasi, importante realtà vinicola veneta: già legata a Paternoster sotto il profilo umano, dal 2016 ne è divenuta azionista di maggioranza, lasciando saldo il timone nelle mani di Vito e Fabio.
Cantine del Notaio, 7 generazioni in vigna
Ci spostiamo di pochi chilometri, a Rionero in Vulture, per assistere a una scena avvenuta qualche anno addietro: Gerardo Giuratrabocchetti sta pensando che il nonno sia impazzito. Quell’uomo burbero, austero, con una dura esperienza di migrante d’America alle spalle, è adesso chino sulle sue viti con un volto stranamente bonario. E gli ha appena chiesto “Come ti chiami?”, a lui, suo nipote, che continua a guardarlo stranito. “Ti chiami come me! - si sentirà dire dopo un po’ - per questo, le mie vigne ti apparterranno”. Di lì a breve, il nonno morirà. Gerardo ha sette anni e non può sapere che in quella frase sta l’innesco della sua futura, totalizzante passione.
I Giura avevano origini nobili albanesi, giunsero nel Vulture sul finire del ‘400 e adottarono altre famiglie in difficoltà, fondendone i cognomi: da qui, i GiuraTrabocchetti. Gerardo è alla settima generazione di viticoltori, catena che rischiò di spezzarsi col padre Consalvo, predestinato “dottore” nella casata di contadini, che esercitò la professione di notaio e lasciò le vigne ai fratelli. Ma il nonno si fece sentire ancora, nei sogni e non solo: come potevano ignorare la sua volontà, il suo lascito? “E così, per il mio diciottesimo compleanno, mio padre mi donò le vigne che aveva nel frattempo riacquistato”.
La svolta di Gerardo Giuratrabocchetti
Gerardo si laureò in Scienze Agrarie, per vent’anni lavorò in ambito scientifico, a Potenza. Fino alla svolta: “Una camminata in vigna, in un momento assai delicato, la chiamata del nonno mi diede la scossa per cambiare vita”. Ha quarant’anni quando insieme alla moglie Marcella fonda Cantine del Notaio. È il 1998, e a quel punto sì, il padre (giustamente, tende a precisare) cerca di redimerlo: perché sacrificare la carriera, buttarsi in un’avventura rischiosa come quella del vino? “Lui, il notaio, aveva poteri incredibili: uno schiocco delle dita e mi faceva sparire le uve in vendemmia. Ma i famigliari, gli amici, le oltre quaranta persone che adesso lavorano in azienda, tutti mi hanno sempre incoraggiato. E anche il notaio Consalvo ha presto cambiato idea”. Il Professor Luigi Moio fu decisivo per un approccio rigoroso alla materia agronomica, mentre i vigneti, 40 ettari dislocati nelle contrade più tipiche, fecero subito valere i loro frutti, il nerbo del tufo vulcanico che li “allatta” nelle estati siccitose.
I vini affinati nelle grotte scavate nel tufo
La conduzione guarda al biodinamico; le cantine sono un innesto di modernità, con la nuova struttura di Serra del Granato, e di recupero: tuttora i vini affinano nelle grotte scavate nel tufo di Rionero, risalenti al 1600: “Una città sotterranea, con un perfetto equilibrio di temperatura, umidità e ventilazione”. È qui che Cantine del Notaio culla il suo Aglianico del Vulture: “Un pugno di ferro in un guanto di velluto - piace sintetizzare a Gerardo - Un vitigno tosto che deve esprimere gradevolezza, morbidezza, complessità”. È andata a premio l’interpretazione più tradizionale: Il Repertorio ’17, ovvero «l’Aglianico come lo avrebbe voluto mio nonno, nervoso e caldo, con il suo lungo finale di liquirizia e cacao»; ma sono molte le versioni interessanti, come Il Rogito, «più rossato che rosato», o La Stipula, versione spumantizzata in bianco, a sua volta recupero di una tradizione quasi sepolta.
Re Manfredi
Paolo Montrone è nato invece nella campagna di Venosa, e in questa campagna ha sempre vissuto. Re Manfredi è una realtà che gli è cresciuta addosso “fin dalle primi viti che assieme a mio padre innestammo sul campo, acquistandole nella vicina Maschito”, quando il nome e gli orizzonti aziendali erano ben diversi. “Era il 1976 e così cominciammo, 15/20 ettari ogni anno” per arrivare ai 120 attuali. “Ai tempi l’Aglianico era utilizzato perlopiù come uva da taglio, noi la raccoglievamo e la pigiavamo, poi partiva verso nord. A produrre vino in loco erano pochi, due cantine sociali e qualche storica azienda, per il resto c’erano soltanto imbottigliatori”. Nel 1990, con tutti i vigneti in produzione, si iniziarono i lavori della cantina che nel 1998, sotto l’ala di Gruppo Italiano Vini, sarebbe sbocciata in Terre degli Svevi – Re Manfredi, adesso all’apice della produzione lucana con circa 300mille bottiglie annue. “Molta soddisfazione ce l’hanno data vitigni bianchi anomali per la zona (ovvero Müller Thurgau e Traminer, che confluiscono nel Manfredi bianco, n.d.r.) ma di Aglianico parliamo per raccontare il nostro territorio», dice Paolo. «È un dei vini più importanti del sud, per questo è fondamentale una politica incentrata sulla qualità, anche nei grandi numeri: non mi stancherò mai di ripeterlo”. La chiave del successo sta nel connubio tra terreno vulcanico e clima, altitudine, escursione termica. “L’altopiano che degrada dal Vulture è straordinario, un ambiente atipico rispetto al Sud che immaginiamo”, habitat ideale per un vitigno altrettanto anomalo a certe latitudini. “L’Aglianico appare aggressivo, energico, eppure è anche fragile. Per esprimersi deve essere vendemmiato tardi, fino alla fine di novembre, e con la piena maturazione la sua buccia diviene delicatissima: basta il furore di una pioggia per rovinare tutto. In una terra dove non abbiamo acqua, non irrighiamo, anzi: sono le annate più secche a darci i frutti migliori”.
Manfredi di Hohenstaufen, nativo di Venosa, fu l’ultimo sovrano svevo del regno di Sicilia, e amava ritirarsi in questa campagna: a lui l’azienda dedica il suo Aglianico. “Re Manfredi è l’etichetta più tradizionale, il vino guerriero, profumi e tannini esplosivi che ben si abbinano a cibi saporiti, come un bel caciocavallo podolico stagionato”; per Vini d’Italia, il sorso ricco ed equilibrato della versione 2016 vale i Tre Bicchieri. Il Serpara è invece un cru dalle vecchie vigne di Maschito, “maturo ed elegante”, il Taglio del Tralcio un’interpretazione più beverina: “Quando l’uva giunge a maturazione, tagliamo il tralcio capofrutto e lasciamo il grappolo a un leggero appassimento sulla pianta”. Christian Scrinzi cura la parte enologica mentre la passione di Corrado Casoli, presidente di GIV, si traduce in continui investimenti: in corso la modernizzazione e l’ampliamento della cantina, dove a fianco di una prestigiosa barricaia verrà dedicato spazio all’utilizzo delle anfore.
Il racconto completo, con la cantina Grifalco e le interpretazioni di Aglianico che lasciano un ottimo ricordo del Vulture, lo trovate nel mensile di luglio del Gambero Rosso.
a cura di Emiliano Gucci
QUESTO è NULLA...
Nel mensile di luglio del Gambero Rosso trovate l'articolo completo con un un focus sull''Azienda agricola Elena Fucci e il punto di vista sull'Aglianico di Vulture di Matteo Zappile (restaurant manager-head sommelier a Il Pagliaccio, Roma). In più le migliori 19 etichette, le 11 tavole della zona scelte dai produttori e 5 piatti abbinati a 5 Aglianico scelti dallo chef e il sommelier del ristorante Vitantonio Lombardo a Matera.
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