La ricetta della Liberazione
“Si pensa si sogna e si agisce secondo quel che si beve e si mangia” scriveva nel 1931 Tommaso Marinetti nel famoso Manifesto della cucina futurista, arrivando alla conclusione – una tra tante – che nell'inseguire e perpetrare una vita sempre più veloce, in armonia con il mito della modernità e dell'azione, si dovesse bandire dalle tavole nostrane la pasta “assurda religione gastronomica italiana”, rea di fiaccare gli animi e con mollezze e sentimentalismi. Così sembra quasi un voluto contrappasso che il piatto simbolo della Liberazione dal fascismo sia proprio una pastasciutta, passata alla storia come la Pastasciutta Antifascista. Quella che – non il 25 aprile 1945, ma il 25 luglio 1943 - ha celebrato la promessa di libertà data dalla caduta del fascismo e di Mussolini. Accadeva a Campegine, un piccolo borgo emiliano, con una festa di piazza nata spontaneamente e celebrata dal rito (non solo) pagano della condivisione del cibo: chili e chili (si dice 380) di pasta con burro e formaggio (presi dal vicino caseificio) offerti alla gente del paese dai fratelli Cervi, partigiani. In epoca di ristrettezze, un piatto di pasta era ben più di ciò che tanti potevano permettersi.
La propaganda gastronomica e la resistenza in cucina
La popolazione sfinita dalla guerra e dalla fame assaggiava una libertà che sarebbe arrivata solo due anni dopo. Nel mentre, in cucina ci si arrangiava con quel che c'era. E c'era davvero poco, quel che concedevano la tessera annonaria, il razionamento, l'ammasso, la borsa nera, per quelli che non vivevano in clandestinità. Gli altri, i combattenti, mangiavano poco, quasi mai abbastanza, spesso cibi crudi consumati in fretta, a volte continuando la marcia. Lo raccontano Elisabetta Salvini e Lorena Carrara nel loro Partigiani a tavola.
Da parte sua il regime, se da un lato imponeva sacrifici estremi, dall'altro giocava la carta della tavola per fare la sua propaganda: lo faceva nei nomi esaltanti delle pietanze (come nel caso dei cannelloni dei combattenti o dello sformato autarchico, come scovato, cucinato e narrato da Samanta Cornaviera nel suo blog Massaie Moderne), e nelle italianizzazioni forzate dei termini stranieri, anche quelli culinari, si tratti del gonfiato per soufflé, il ragutto per ragout o il consumato per il consommé, per non parlare delle polibibite, che altro non sono che i cocktail. Ci sarebbe stato da ridere se non fosse stato tragico. Erano proclami da cinegiornale che poco colpivano le famiglie nel chiuso delle proprie cucine dove si andava avanti a pane nero, cipolle, rape, la carne poca, la pasta di rado. Dove per tutti vigeva la regola del saper fare tanto con poco, a volte niente, a suon di calembour gastronomici, surrogati, l'impossibile matematica domestica di chi si destreggiava con quel che c'era, e più spesso non c'era. Nonostante questo, anche all'epoca c'era chi scriveva di cucina. Erano le antenate delle food writer che dispensavano ricette e consigli alla popolazione, condividendo il valore di quell'arte di arrangiarsi a cui erano chiamate le donne tutte, che fossero a combattenti in montagna o angeli del focolare.
Liberazione
Erano anni di stenti, insomma. Di pance vuote. Non quel giorno in cui ci si ritrovò insieme a mangiare. Sacra rappresentazione di un atto politico. E così fu che quella pasta antifascista diventò il simbolo della Liberazione, e poco importa se le date non coincidono. E oggi ci troviamo a celebrare un 25 aprile che promette di essere, simbolicamente, una nuova Liberazione: dai divieti, dalla paura, dall'oppressione di un nemico stavolta ancora più interno e insidioso. Oggi celebriamo quel po' di libertà che domani arriverà in gran parte d'Italia che, gradualmente (e speriamo senza più marce indietro) tornerà alla normalità; magari non quella di ieri, ma una nuova. Ma adesso, usiamola bene questa libertà.
a cura di Antonella De Santis