Placido e dormiente su un’isola all’interno di un delta fluviale, il centro storico di Saint Louis in Senegal è ormai un museo a cielo aperto dell’epoca coloniale: quella che fu la capitale dell’Africa francese infatti, oggi è una tranquilla città la cui economia si basa sulla pesca e in minima parte sul turismo, in un ruolo di stella binaria nei confronti dell’attuale capitale in espansione, Dakar. Nonostante la secolare storia di dominazione da parte di uno dei popoli che - da sempre – si è fatto ambasciatore della propria gastronomia a livello mondiale, è proprio in questa città che è nato uno dei simboli del paese, il ceebu jen o tieboudiene, arrivato anno dopo anno a imporsi come simbolo culinario del Senegal. Fino a essere riconosciuto – nella stessa tornata della cerca e cava del tartufo - come patrimonio immateriale dell’umanità dall’Unesco, andando ad affiancare piatti come il cous cous marocchino, lo street food di Singapore e tradizioni come l'arte del pizzaiolo napoletano. Ma il suo valore potrebbe essere a modo suo maggiore, perché questo piatto, inventato da una donna un secolo fa, oggi potrebbe mandare al mondo un messaggio sul problema della pesca in Africa.
Il ceebu jen: origine e ricette del piatto patrimonio immateriale dell'Unesco
Chiamato anche thiéboudiène o thiéboudienne, nonostante ormai esistano tantissime versioni regionali e cittadine sparse in tutto il Senegal (e anche oltre, visto la sua notevole popolarità anche in Guinea-Bissau, Guinea, Mali, Mauritania, e Gambia) il piatto ha ricetta e origine chiare. Partiamo dalla prima, che vede come ingredienti fondamentali riso, pesce, salsa di pomodoro e verdure come cavoli, carote, manioca. Il “riso grasso” o “riso senegalese” come lo chiamano negli altri paesi del Golfo di Guinea è preparato condendo il tipico riso con pesce fresco o essiccato, prezzemolo, concentrato di pomodoro, peperoni, aglio e cipolle e verdure.
Tradizionalmente viene presentato in un grande piatto rotondo, il pesce disposto al centro, sul riso, circondato da verdure. Non è un piatto semplice come qualcuno potrebbe pensare, e nonostante le varianti la sua preparazione è a modo suo codificata nei passaggi, in quanto ogni verdura ha un tempo di cottura specifico e viene aggiunta e poi rimossa in un preciso momento. Ogni ingrediente deve conservare la sua integrità fisica e avere il miglior gusto e consistenza possibile.
Il ceebu jen: valore culturale e sociologico
La preparazione di questo piatto è affidata alle donne, che hanno sempre fatto della ricerca di originalità e sapori un tratto d’orgoglio: dall’aggiunta di gamberi alle polpette di pesce nel brodo, fino all’utilizzo del tamarindo nella salsa, le ricette familiari sono pressoché infinite. E non solo, anche le tipologie di ristoranti in cui trovarlo non vedono limiti, lo si può gustare nei grandi Hotel e ristoranti di Dakar tanto quanto nelle realtà familiari in cui si mangia – come da tradizione - con le mani, da un piatto comune.
Oltre ad essere un esercizio gastronomico complesso il ceebu jen ha anche un significato sociologico: tradizionalmente infatti questo pasto conviviale, consumato con ospiti e familiari dallo stesso piatto, ha un delicato codice di consumo. Innanzitutto, si consiglia di mangiare ciò che si ha di fronte, è disapprovato afferrare la parte del vicino. Ma per rispetto, tradizione e cortesia, spesso il cuoco spinge pezzi di pesce o di verdura davanti agli anziani o agli ospiti, in un rito della tavola molto toccante.
La classificazione come patrimonio immateriale dell'Unesco è quindi riconoscimento di tutti questi codici e tecniche, e si spera porti ad un’espansione della fama.
La storia del ceebu jen
La storia di questo piatto - una volta tanto - non è misteriosa, ma ben definita e più o meno datata: bisogna risalire al secolo scorso e andare nel quartiere dei pescatori di Saint Louis noto come Guet Ndar, nell’allora capitale dell'Africa occidentale francese (AOF). In questo angolo della città dove ogni giorno le canoe scaricano il pesce, lavorava una cuoca chiamata Penda Mbaye (1904-1984) divenuta celebre per la sua ricetta di riso con il pesce. Secondo i resoconti raccolti dalla Commissione sulla storia generale del Senegal, derivanti sia dai racconti degli anziani sia dai discendenti di Penda Mbaye, un governatore delle colonie, venuto a conoscenza dela sua fama, le aveva chiesto di preparalo per una cena con ospiti importanti.
A Penda Mbaye venne l'idea di colorare il riso, non con la passata di pomodoro ma con i pomodorini più colorati e più gustosi, ottenendo un riso rosso, dando il via alla ricetta che oggi conosciamo. Nella versione tradizionale di Saint-Louis, anziché friggere il pesce (come viene fatto in molte località del paese) si continua a cuocerlo lentamente lentamente nel brodo che poi dà al ceebu jen tutto il suo sapore.
“Prima della colonizzazione, il riso non era un ingrediente locale”, spiega Abdoul Aziz Guissé, direttore del patrimonio presso il Ministero della Cultura alla testata Jeune Afrique “Ai tempi delle colonie fu imposto per far passare il Senegal a un altro tipo di coltivazioni. I senegalesi lo adottarono, cucinandolo con pesce e carne. È così che, per resilienza, un ingrediente imposto ha portato alla creazione di un piatto nazionale”.
Preservare le risorse della pesca
Nel 1965 il Senegal era il primo paese Africano a livello di pescato con più di 100.000 tonnellate annue portate a riva, e un consumo pro capite di 25kg l’anno che ne facevano il quarto paese a livello mondiale per consumi (al primo posto c’è proprio il Giappone con 120kg p.p). Una ricchezza che pareva pressoché inesauribile, visto anche che a nord del confine si trovava un paese come la Mauritania, desertico e spopolato, poco dedito alla pesca, e nelle cui acque territoriali la riproduzione della fauna marina poteva avvenire senza predatori umani. Poi però, negli ultimi anni, qualcosa è cambiato, per colpa delle licenze di pesca vendute a paesi stranieri, che stanno vuotando i mari.
Uno dei motivi per cui il peso di questo riconoscimento trascende il semplice ruolo della cucina, è che questa notizia richiamerà anche l'attenzione su alcune questioni locali come la sovranità alimentare o la conservazione delle risorse ittiche. Alcuni pesci pregiati necessari per la preparazione del ceebu jen stanno infatti diventando sempre più rari. La sua inclusione nella lista dell'Unesco evidenzierebbe quindi il problema della sopravvivenza della pesca e il sovrasfruttamento del mare.
a cura di Federico Silvio Bellanca