Tesoro, mi si sono ristretti i…prodotti! Negli ultimi mesi si sta parlando sentitamente della shrinkflation, il fenomeno che coinvolge i prodotti sugli scaffali che ritroviamo ridotti in dimensioni e con prezzi aumentati. Abbiamo affrontato già l’argomento in più battute, a cominciare dalla questione dei gelati: se il Magnum si chiama Magnum un motivo ci sarà, ma evidentemente non è più così.
A darci la cifra di quello che sta succedendo è un esperto del settore, Massimiliano Dona, avvocato e Presidente di Unione Nazionale Consumatori. L’abbiamo intervistato per chiarirci le idee.
Esiste l’anno zero della shrinkflation? Quando è cominciato il fenomeno?
Il fenomeno è sempre esistito. In passato era collegato a momenti storici, quando i produttori dovevano trasferire sui consumatori dei costi inattesi. Ad esempio, se aumentava la tassazione su un prodotto come l’iva sui formaggi o sui detersivi, per dire, il produttore per evitare di aumentare i prezzi - perché controproducente giacché si riducevano gli acquisti dei consumatori -, faceva aumenti camuffati, cioè sgrammava.
Storicamente quali sono i periodi in cui succedeva?
Questo fenomeno risale agli anni ‘70/’80, ma succedeva molto raramente. Negli ultimi tempi si è diffuso a macchia d’olio a partire dalle recenti crisi economiche, alcuni episodi li abbiamo visti stabilmente nel 2007/2008, dopo la pandemia è diventato un evento abituale. La stagione recente della shrinkflation possiamo datarla fra il 2020/2021. Questo perché cominciano a rincarare le materie prime, in concomitanza con la pandemia.
Quindi, un po’ amaramente, possiamo dire che con la shrinkflation ormai avremo a che fare a lungo?
Oggi non è un fenomeno episodico, collegato a eventi storici, ma è diventato endemico, abituale, tant’è che non si sgramma solo il cibo, a essere coinvolti sono anche altri prodotti come i detersivi, i prodotti per la casa, i cosmetici, shampoo, si riduce la carta così come la carta igienica, rotoloni, tovaglioli.
Ma questo riguarda solo i prodotti o anche i servizi?
Tutto si può ridimensionare. Se vogliamo, questo sì riguarda anche i servizi: le porzioni al ristorante non sono quelle di un tempo, c’è un prosciugamento di quello che il consumatore riceve dopo aver pagato.
Quali sono gli effetti negativi di tutto questo?
Il primo è sul potere d’acquisto. Io pago un’inflazione occulta, c’è l’effetto inganno: si crede di aver fatto la solita spesa, ma ci si ritrova a tavola con meno prodotti. Una signora su Instagram, proprio l’altro giorno mi ha scritto che prima con un pacco di pasta faceva 5 porzioni, l’ultima volta che ha aperto un pacco di pasta senza accorgercene è saltato un posto a tavola.
L’altro è sull’ambiente. Si riduce il contenuto ma non le confezioni, si genera l’overpackaging, e cioè un esubero di confezione. Ad esempio, pensiamo a una bottiglietta d’acqua o alla scatoletta di tonno, se sono pieni il packaging svolge la sua funzione preziosissima altrimenti no. Ma perché non adattarla al contenuto? La risposta è che, se avessero adattato al contenuto la sgrammatura sarebbe stata evidente e qui sta l’inganno.
Il consumatore è tenuto a controllare il peso del prodotto?
Sì, il consumatore deve controllare il peso del prodotto, il prezzo al chilo, si fa. Ma lo si fa per i prodotti particolari non per quelli routinari, in questo caso tutto sfugge di mano.
Inoltre, indicare il pezzo al chilo come per la carta, non è obbligatorio per le aziende produttrici. Dunque, non è facile per i consumatori venirne a capo.
I prodotti più coinvolti quali sono?
Biscotti, merendine che ritroviamo sempre più piccole anche con un pezzo in meno nella scatola, i gelati rimpiccioliti, colomba e panettone. Per questi prodotti “stagionali” neanche si nota perché passa un anno da una consumazione all’altra. Le scatole di riso possono passare da un chilo a 800 grammi, la pasta da 500 grammi a 400. Anche moltissime le bibite sono soggette a shrinkflation: la bottiglietta dell’acqua non è da più da 500 ml, ma da 400 o l’acqua al ristorante, da 1 litro a 0,75 cl. Sgrammano gli yogurt, le mozzarelle. I dentifrici, le creme, tovaglioli, l’elenco è infinito.
All’estero qualcosa si sta muovendo per tutelare i consumatori.
In Francia, dalla scorsa settimana Carrefour ha cominciato a etichettare a scaffale una serie di prodotti sgrammati scrivendo tutto a caratteri ben visibili. L’hanno fatto per sfidare le industrie. Perché loro li vendono e c’è un produttore che li vende a loro, ovviamente, quindi anche loro li pagano troppo.
E in Italia, come possiamo difenderci intanto che questa pratica venga regolamentata?
Sicuramente, noi consumatori dobbiamo essere più consapevoli e leggere le etichette. Le industrie produttrici dovrebbero almeno indicare il cambiamento segnalando il “nuovo formato”, ad esempio per i primi sei mesi, io applaudirei un’azienda che fa una cosa del genere. Il terzo punto è il legislatore: in Germania c’è una legge che vieta l’overpackaging per oltre il 30% di contenuto: non si può mettere in commercio una scatola più grande del 30% rispetto al contenuto interno.
Regolamentare questo, cosa significa? Le aziende come stanno reagendo?
Siamo in una fase in cui le aziende che hanno fatto le furbe negli ultimi due tre anni, ora si sono accorte che il consumatore ha mangiato la foglia e sul piatto della bilancia c’è anche la reputazione: i consumatori potrebbero scegliere di non comprare più i prodotti di certe aziende.