"Italiani sempre rumore, sempre cantare chitarra e mandolino!". Ricordate il grido di dolore del campeggiatore tedesco esasperato dalle manovre sgangherate di Fantozzi e Filini alle prese con il montaggio di una tenda? Uno sfogo che 48 anni fa riassumeva in un passaggio cinematografico esilarante, quanto di tagliente realismo e acume, alcuni stereotipi legati all’essere italiano, come la caciarona inciviltà o la scarsa propensione al rispetto delle regole del vivere comune. I nostri eroi, o antieroi, non se la stavano spassando affatto con chitarra e mandolino, ma pagavano con la crocifissione verbale il difetto di essere italiani. Italiani da etichetta.
Contraffatti in Italia
Stereotipi più strutturati sono oggi sono al centro della lotta al fenomeno cosiddetto “italian sounding”, ossia un Made in Italy fasullo fatto di prodotti dalla filiera sconosciuta ma venduti come italiani e dichiarati tali per mezzo di assonanze alla denominazione reale che ingannano l’acquirente propinandogli mere imitazioni dell’originale. Parmesan, Grana Parrano, Asiago Cheese, Fontiago, solo per citare i formaggi, in cima alla lista delle materie prime più copiate all’estero stilata dalla Coldiretti. Ma in casa nostra siamo davvero tutti così duri e puri nell’utilizzo e nella promozione delle risorse del Belpaese? Se l’è chiesto Margo Schachter, brillante penna di costume, cibo e viaggi per diverse note testate, nell’episodio 11 della newsletter Materia Prima, “una rassegna stampa di storie utili e consigli non richiesti di attualità gastronomica, ossia gli 'ingredienti' del mio lavoro. Tutti linkati e immaginati bene”. E le riflessioni a margine del quesito aprono scenari non proprio confortanti.
Tutela dell’identità agroalimentare e storie che raccontano altro
“Basta fare due passi per Venezia per toccare con mano quanto i primi contraffattori siamo noi. Ristoranti con spaghetti bolognese e pizza Hawaii, pasticcerie con cannoli veneziani (wtf?!) e bancarelle che vendono paste fluo e oli in bottiglie a forma di stivale (con il tacco)”, scrive la Schachter. Cose che accadono peraltro in tutti i centri ad alta densità turistica, da Roma a Firenze, dove pullulano botteghe e chioschi di souvenir e gadget anche alimentari. Nel pezzo si citano le paste di Nonno Mario, azienda piemontese che commercializza, tra le altre cose, “spaghetti tricolore ai tre sapori”, “farfalle fantasia italiane” e “farfalle fantasia multicolore”, la linea di condimenti di Artigiani Pastai Umbri, Bottiglia Italia, a forma di stivale col tacco, persino Buitoni che in Svizzera e in Spagna fa sognare gli amanti della pizza con La Fina Haway (fatta con farina di frumento, ananas in acqua e zucchero, Edam, pomodori sminuzzati, spalla di suino cotta, olio di colza, zucchero, lievito, latte intero in polvere, sale, amido di mais modificato, specie ed erbe aromatiche, emulsionanti). E ancora il barattolo Alfredo Sauce di Bertolli, la cui etichetta recita “with fresh cream & aged italian cheese”, o, al contrario, i Saikebon della Star: “probabilmente uno chef a Osaka sta facendo harakiri, o magari sta telefonando al ministro del Made in Japan che si preoccupa della lotta al 'Japanese sounding' e a breve lanceranno una crociata contro di noi. Avrebbero ragione, che differenza c’è?”.
Le conseguenze dell’agropirateria
Lo spartito del marketing, poi, è sempre lo stesso: “Tutti scrivono le stesse cose, stesso storytelling. Fra il parmesan australiano e le farfalle tricolori fatte in Umbria non saprei dire chi fa peggio all’immagine dell’Italia nel mondo”. E il nodo della questione è proprio questo. Quanto del miliardario giro d’affari intorno ai prodotti nostrani taroccati ha a che fare con l’autocontraffazione? La stima di Coldiretti e Filiera Italia alla Summer Fancy Food 2022 di New York (la prossima edizione si terrà dal 23 al 27 giugno) ritiene che il falso Made in Italy smuova ormai un capitale di 120 miliardi di euro, grazie anche all’embargo russo e alla guerra in Ucraina. E le conseguenze sono ben note: svalutazione del mercato nostrano, comunicazione ingannevole verso il consumatore, mancanza di controlli nel circuito della produzione e di regolamentazioni sanitarie e lavorative condivise. Come l’ha definita nella succitata esposizione newyorkese del giugno scorso il presidente nazionale di Coldiretti Ettore Prandini, si tratta di una vera e propria pirateria agroalimentare. Che in parte è proprio made in Italy.