La stanza è buia, e il fumo di tabacco che i contadini espirano fuori dai tubi di bamboo da cui sporge un piccolo braciere rifrange la luce solare che entra dalle finestre scavate nei muri di argilla facendo sembrare l’ambiente quasi sottomarino. Qui dentro la temperatura è un po' più fresca, ma nonostante ci troviamo a quasi tremila metri sul livello del mare, le montagne del Vietnam in questo periodo dell’anno non vedono la calura scemare neanche di notte. Il nostro arrivo è dunque la scusa perfetta per staccare dai lavori quotidiani che qui scandiscono il ritmo delle ore da secoli, come ad esempio arare la terra o badare al bestiame, oppure quelli nuovi, come asfaltare le strade per connettersi al mondo esterno come richiesto dal governo centrale che vuole portare la repubblica comunista nella modernità.
Daniel Nguyen torna alle sue radici
In questa camera vuota dove l’unico arredo alle pareti sono dei vecchi diplomi del “buon lavoratore” conferiti dal partito e una foto sbiadita di Ho Chi Min, la tavola imbandita pare quasi un paradosso. Gallina nera, pancetta di maiale, salsicce di lumache, spezzatino di pene di cavallo e zuppa di sangue di oca e volatili. Tutto in un pasto, perché oggi ci sono ospiti, e quegli ospiti siamo noi, arrivati qui a seguito di un ragazzo dall’aspetto pienamente vietnamita ma che parla inglese con un forte accento californiano.
I contadini gli sorridono e lo trattano con rispetto, per loro che lui venga dalla grande città di Hanoi, dai lungamente temuti e nemici Stati Uniti o dalla luna è esattamente la stessa cosa. Loro conoscono solo le loro montagne, e ogni straniero è parte di qualcosa di lontano a cui si può solo dare nomi diversi, così come facciamo noi con le stelle e le galassie che non visiteremo mai. Eppure Daniel Nguyen qui è trattato con rispetto, perché da quando è arrivato da queste parti qualcosa è cambiato nel ritmo immutabile della vita tra le risaie, una piccola rivoluzione silenziosa fatta di germogli che anno dopo anno impatta sulla vita agricola delle comunità più isolate e al contempo contribuisce a una missione più grande, ovvero salvare e preservare la giungla.
Vietnam, un paese a due velocità
Anche se il Vietnam è uno dei Paesi più presenti nell’immaginario occidentale per via del conflitto che ha visto il piccolo paese asiatico resistere per quasi vent’anni prima alla potenza francese e poi alla guerra con gli Usa in un conflitto che così pesantemente ha ispirato il cinema o la musica per un decennio, molti ignorano l’evoluzione successiva di questo Paese dopo la riunificazione del 17° parallelo nel 1975.
Lo stato comunista solo nel 1995 si è aperto al mercato internazionale decollettivizzando l’agricoltura e lasciando spazio all’imprenditoria individuale. E se da allora il paese cresce anno dopo anno ed è addirittura stato definito come “paese emergente modello” per la Banca Mondiale, il Vietnam appare comunque anomalo da molti punti di vista. Ad esempio, nonostante le due grandi città (Hanoi e Ho Chi Min) si stiano espandendo moltissimo, dei quasi 100 milioni di abitanti del Paese ancora due terzi abitano nelle campagne in condizioni che noi definiremmo di povertà, tant’è che nonostante tutto in media il reddito medio non supera i 3.000 dollari pro capite annui. Anche per questo tanti vietnamiti, nel ventennio tra la fine della guerra e l’apertura dell’economia, hanno deciso di lasciare il Paese e cercare fortuna all’estero: oggi si calcola che il valore dei soldi inviati dalla diaspora valga addirittura il 7% del pil del Vietnam, che comunque è il terzo produttore mondiale di riso e il secondo di caffè.
Daniel: Vietnam-Usa andata e ritorno
L’alba è passata da poco, ma il mercato contadino di Simacai nella Lào Cai Province è già in piena attività. I maialini urlano mentre vengono pesati, si fa colazione col pho (una zuppa di pasta in brodo di pollo o manzo), si comprano elisir d’amore, sementi e zappe. In nessuna delle bancarelle di legno gestite dalle donne arrivate dai villaggi vicini pare sia venduto qualcosa realizzato in plastica, o che contenga tracce di meccanica né tantomeno d’elettronica. Mentre passeggiamo tra le bancarelle, Daniel ci mostra botaniche il cui nome non ha traduzione, al massimo un nome scientifico in latino, intervallando l’assaggio di una foglia amara e di una bacca gialla con il racconto della sua storia di ritorno. «I miei genitori provengono dalla parte centrale del Vietnam, ma io sono cresciuto negli Usa, ed è lì che ho compiuto tutti i miei studi – racconta – al college ho studiato Biology and Natural Resources Management e mi sono concentrato sulle applicazioni dell'etnobotanica durante il mio lavoro. È proprio per questo che poco più che ventenne sono venuto per la prima volta nella terra dei miei antenati.
La mia intenzione era di studiare le piante locali alla maniera occidentale e scientifica, ma ci sono stati incontri che mi hanno costretto non solo a rivedere la mia analisi delle priorità, ma anche i miei progetti di vita. Uno di questi è stato quello con May, una curatrice tradizionale del villaggio di Ta Phìn. È stata lei, che da tutta la vita raccoglieva le erbe nella giungla per curare i suoi compaesani, la prima ad accorgersi che alcune piante stavano scomparendo per via della raccolta indiscriminata, della deforestazione e del cambio del clima. Ed è stato con lei e con il suo villaggio che abbiamo cominciato a ragionare su come provare a salvaguardare queste specie raccogliendo i semi nel mezzo della foresta e ripiantandoli in delle “nursery” sui pendii posti ai bordi delle risaie per far crescere le piante e salvarle».
La raccolta delle botaniche nella giungla
Capiamo quanto lavoro questo comporti questa missione il pomeriggio stesso, mentre nel caldo umido seguiamo la lama di un falcetto nel cuore della vegetazione. È stata la stessa May ad accompagnarci nella giungla, fino a che il percorso non si è fatto troppo ripido per lei, ormai anziana. Da lì in poi abbiamo ricalcato le orme degli uomini Red Dao fino ad arrivare a uno spiazzo aperto nella vegetazione dove, alla luce del sole, crescono e brillano i boccioli viola. Ore di cammino per raccogliere qualche decina di semi di Canh Khé Ghím un fiore in via d’estinzione. Tanto lavoro, ma per cosa? È questa la domanda che il giovane Daniel si è trovato ad affrontare dieci anni fa, quando capì che se voleva salvare la giungla doveva rendere sostenibile il lavoro di quei contadini, incentivandoli ad aiutare May a salvare le piante. E la risposta alla fine è arrivata: quelle piante, che per anni erano stati alla base della medicina tradizionale, sarebbero diventate il cuore botanico del suo gin, Song Cai, e i proventi avrebbero alimentato un circolo botanico virtuoso.
La distilleria e lo spirito del Fiume Madre
Per i Red Dao, una delle tante minoranze etniche del Vietnam che ha la propria casa proprio tra queste montagne, la religione non è fatta di divinità antropomorfe, bensì di entità spirituali. La giungla che ora si battono per salvare è sicuramente una di queste. Lo è anche Sông Cái, il “fiume madre”, nome scelto da Daniel per battezzare il proprio Gin. Nella periferia di Hanoi tre capannoni ospitano oggi la produzione di questo distillato e più di venti persone lavorano per creare questo prodotto. È qui che dopo un lungo viaggio arrivano le botaniche essiccate coltivate sulle montagne, pronte per essere inserite nell’alambicco di rame a fiamma diretta alimentata a mano con una base di alcol di riso e melasse, per essere distillate separatamente e poi diventare parte del prodotto finale: i protagonisti di questa avventura sembrano essere come diversi strumenti che si incontrano con i propri spartiti per il grande concerto.
I gin di Sông Cái
Il Dry Gin Sông Cái contiene bacche e foglie di Mac Mat (clausena indica), semi e frutti di Mac Khén (spezia abbastanza vicina al pepe con un gusto leggermente piccante e un aroma intenso), pepe nero in grani, buccia di pomelo Dien, liquirizia bianca, legno di Dia Siêu (una specie di liana), zenzero, curcuma, semi di coriandolo, cassia. Una variante è il Floral Gin Sông Cái che si ispira al bouquet usato per profumare le abitazioni e decorare gli altari familiari: viene realizzato a partire da cinque fiori (dragon claw, ylang ylang, gelsomino, magnolia e pomelo) ognuno dei quali viene distillato separatamente. Infine, nella distilleria di Sông Cái nasce lo Spiced Roselle Gin che si ispira invece ai tradizionali liquori di frutta del Vietnam e che al contempo rende omaggio ai suoi altopiani utilizzando per la sua preparazione le bacche di mirto rosa Quá Sim che lì crescono spontaneamente. Ma non solo, Daniel produce anche un amaro che tra le altre botaniche ha l’oppio, che cresce spontaneo ed è parte della cultura curativa dei popoli del Sud Est asiatico: lo ha chiamato May, come la donna da cui è partito tutto.
Export in Usa e rigenerazione della foresta
L’azienda dunque oggi produce diverse referenze, che esporta principalmente all’estero: il principale mercato è proprio il nemico di una volta, gli Stati Uniti. Oggi Daniel non è più un ragazzo sulle orme dei suoi antenati, ma un cittadino del Vietnam orgoglioso di poter essere in piccola parte responsabile della crescita e dell’evoluzione del proprio Paese. Non solo, è anche responsabile di un circolo virtuoso che aiuta la foresta a rigenerarsi, sostiene il lavoro dei contadini che trovano un reddito in coltivazioni diverse della monocultura del riso, e si batte perché la medicina tradizionale non scompaia nella modernità. Niente male per una semplice bottiglia di Gin.