Torviscosa, la cittadina autarchica
A una trentina di minuti d’auto da Udine, sulla strada che porta a Grado, in direzione del mare, Torviscosa è un piccolo centro che oggi conta poco meno di tremila abitanti. La sua fondazione si lega al periodo fascista, come immediatamente rivela l’urbanistica del nucleo centrale, con i suoi edifici in stile razionalista. Torviscosa è infatti quella che oggi si direbbe company town, agglomerato nato nel 1938 attorno a un importante polo di produzione di cellulosa, la Snia Viscosa, che all’epoca era centro propulsore di un esperimento autarchico come tanti se ne vedevano nell’Italia di Regime. Nei campi bonificati dal Partito Nazionale Fascista, la coltivazione su larga scala di canna comune alimentava la produzione di fibre artificiali di raion (detto anche viscosa) ricavate dalla cellulosa “autarchica”, mentre tutto intorno nasceva l’abitato, affacciato sulla piazza disegnata da Giuseppe De Min, con le case dei dipendenti, gli impianti sportivi, il teatro, la scuola, il municipio di rappresentanza del Comune, ufficializzato nel 1940. La storia di Torviscosa, dunque, racconta lo spaccato di un’epoca (e di un regime) che sull’autarchia fondava la propaganda nazionale. Non a caso, è partito dalla cittadina friulana l’impulso per una ricerca sulla cucina degli Anni Trenta, confluita nel libro a cura di Elisa Pallavicini che è interessante testimonianza di storia dell’alimentazione.
Cucinare negli Anni Trenta. Ricette d’epoca fascista
Cucinare negli Anni Trenta è frutto di un lavoro d’archivio condotto presso la Biblioteca Ioppi di Udine, che ha consentito di avere accesso a un gran numero di ricette pubblicate sul quotidiano fascista Il Popolo del Friuli tra il 1932 e il 1945. Il testo ne raccoglie un centinaio, riferite alle sole pubblicazioni del 1938, in omaggio all’anno di fondazione di Torviscosa. E le ricette, pur rivelando in alcuni casi l’appartenenza alla cultura gastronomica territoriale del Friuli, sono soprattutto chiave d’accesso alle abitudini alimentari dell’epoca, e ancor prima spia di un approccio preciso del Partito Nazionale Fascista alla produzione e al consumo di cibo, e così pure alla cucina, anch’essa piegata a fini propagandistici. Sempre in nome dell’autarchia: “Mangio italiano, parlo italiano” è un motto che ben riassume lo spirito della cucina di regime degli anni Trenta, che non solo spinge per l’utilizzo di ingredienti nazionali, ma si impegna nella traduzione di piatti e pietanze di origine straniera, per ricondurli nell’alveo della lingua italiana. E questo è evidente nelle ricette ripubblicate nel libro, dove la charlotte diventa ciarlotta e il rosbiffe è chiaramente un parente tricolore del roastbeef inglese.
La cucina autarchica. Nel piatto e sul vocabolario
Elisa Pallavicini, che è storica specializzata in storia dell’alimentazione, ha curato il progetto proprio con l’intenzione di esplicitare certe dinamiche: “Il ricettario che abbiamo rimesso insieme somma ricette locali come il boreto alla gradese a piatti di respiro nazionale, non solo di stampo popolare, rivolgendosi il quotidiano a una platea di classe agiata. Quindi c’è tanta cucina del riuso - a base di pane raffermo, avanzi per le minestre, insaporite con i dadi comparsi sul mercato all’epoca… - ma anche un approccio interessante agli ingredienti pregiati, come l’aragosta, i tordi, il cinghiale, con attenzione particolare riservata anche all’impiattamento”. Ma quel che più emerge è il perfezionamento di una politica dell’autarchia in cucina avviata all’inizio degli anni Trenta, che raggiunge il suo apice proprio sul finire della decade, prima di passare in secondo piano durante la guerra, quando anche la pubblicazione di ricette inizia a diradarsi. “L’attività di propaganda per favorire il consumo del prodotto nazionale era massiccia, accompagnata anche dal messaggio sulla lingua: ‘Se l’Italia ha dato origine a tutte le lingue europee, perché ora dovremmo usare le altre?’, si legge in uno dei trattati fascisti sul tema. E quindi il lavoro di trasformazione linguistica coinvolge anche il cibo e i ricettari: non si parla di menu, ma di lista; non di dessert, ma di “fin di pasto”. E, per esempio, le nuove varietà di grano prodotte all’epoca, riportate nel Registro delle varietà di frumento elette, pubblicato proprio nel ’38, portano tutti nomi che hanno a che fare con figure, simboli e slogan politici: il grano Luigi Ratta, il Sabaudia, il Tevere, l’Edda, persino il grano T.D. Tiriamo dritto”.
La propaganda alimentare sul cibo italiano
Del resto, l’alimentazione ha costituito un tema di rilievo nell’ambito delle politiche di divulgazione culturale fasciste: “Per esempio vediamo una fioritura straordinaria di diari, agende, ricettari, opuscoli forniti in maniera gratuita da tutti i produttori; ma anche un intervento importante da parte del Partito, che propone una serie di libri dove si spiega perché mangiare italiano, ci si sofferma sull’importanza delle singole produzioni nazionali e poi si forniscono ricette per utilizzare quegli ingredienti in cucina. Succede soprattutto per il riso: all’epoca c’era ancora carenza di grano, nonostante l’incremento produttivo avviato alla metà degli anni Venti, quindi si consiglia di consumare almeno una porzione di riso al giorno”. Ma molto interessante è anche il lavoro sul pesce: “Era un ingrediente costoso, poco accessibile; così nasce la Genepesca, una compagnia che ottiene il permesso di pescare nell’Atlantico, supportata da miglioramenti strutturali sulle imbarcazioni, che vantano nuovi sistemi di refrigerazione a bordo. Il pesce surgelato arriva sul mercato italiano, ma è una novità, e si scontra con la diffidenza dei consumatori. Dunque proliferano libri e opuscoli editi dal Partito a sostegno della Genepesca, che spiegano i vantaggi di avere pesce surgelato a un costo ridotto ed elaborano un ricettario per consumare i filetti congelati. Anche tra le ricette del Popolo del Friuli, per esempio, quando si parla di salmone il riferimento a Genepesca è esplicito”.
Oggi, il libro raccoglie le ricette così com’erano scritte per i lettori dell’epoca: “Ho mantenuto il linguaggio, anche quando si sofferma su procedure e strumenti che non ci appartengono più. E la struttura, che non prevede una lista di ingredienti separati, né l’indicazione delle dosi. E salta molto passaggi dando per scontato, per esempio, che tutti sapessero come fare una besciamella”.
Cucinare negli Anni Trenta – a cura di Elisa Pallavicini – 2020, Pro Torviscosa
a cura di Livia Montagnoli