«Chi parla male, pensa male» diceva Michele Apicella, un Nanni Moretti più morettiano che mai, in Palombella Rossa. Quell'ossessione per il modo di parlare avrebbe dovuto accendere un campanello d'allarme il tutti noi, perché la relazione tra linguaggio e pensiero è un flusso a doppio senso, le parole esprimono i pensieri ma contribuiscono anche a dare loro forma. Così, quando Gennaro Esposito, durante l'incontro ELLE EST CHEF(FE), quando lo chef è lei, dice: «Vorrei che il discorso sulle donne in futuro fosse fatto in modo diverso» non possiamo che concordare.
L'importanza di parlare di questioni di genere
La strada è ancora lunga, però, e lo abbiamo visto proprio durante quell'incontro nell'ambito di Festa a Vico. Intendiamoci: apprezziamo moltissimo lo sforzo di dare voce a giovani donne, chef e imprenditrici, crediamo sia importante e fondamentale dare loro visibilità, ma vediamo che ancora oggi non riusciamo a fare i conti con il nostro pensiero, anche se animati dalle migliori intenzioni. Del resto siamo cresciuti in quella stessa cultura patriarcale che cerchiamo di combattere e che ci tende delle imboscate dove meno ce le aspettiamo. Lo vediamo quando, moderando un talk che vuole dare spazio alle donne nel mondo della ristorazione, si accenna alle protagoniste dell'incontro chiamandole quote rosa sul palco, una formula usata forse con leggerezza e una certa pigrizia, che da una parte evidenzia la mancanza di parole adeguate (e se mancano le parole per affrontare un tema, è perché non è stato ancora abbastanza pensato, discusso, vissuto), dall'altra porta con sé l'implicito sottotesto che la presenza sul palco non sia una conquista per merito ma una concessione in nome di una buona pratica, al punto da spingere Gennaro Esposito a correggere il tiro proprio su questa questione. Le buone pratiche sono importanti, ma non bastano. Il gender gap si supera eliminando gli stereotipi di genere, migliorando le condizioni lavorative, lavorando per una vera gender equality, rompendo quel tetto di cristallo che allontana le donne dai ruoli apicali.
Quante donne in Italia guidano una cucina o un ristorante? Poche, ancora troppo poche: solo il 28% delle attività di ristorazione ha titolari donne – dice Alessandra Pon, giornalista di Elle Italia che modera l'incontro - mentre le chef sono il 20%; il dato è in crescita e migliore rispetto al resto del mondo, ma sono sempre percentuali risicate, che raccontano il paradosso di un Paese in cui la maggior parte della popolazione rappresenta nei fatti una minoranza (in Italia le donne sono il 51,3% - dati Istat 2022). E se davvero si pensa che sia una mera questione di capacità, che non ci siano tante cuoche o ristoratrici abbastanza brave per emergere, suggeriamo la rilettura di Una stanza tutta per sé, però intanto cerchiamo di ottenere un welfare che dia davvero le stesse opportunità a tutti.
Le domande che non vorremmo sentire più
Partiamo dalla cosa che riguarda tutti noi: come smontare gli stereotipi? Innanzitutto smettendo di parlare di un mestiere a partire dal genere di chi lo esercita: sarebbe auspicabile che non si chieda più a delle professioniste se esiste un tocco, un approccio o un modo femminile di cucinare, nessuno chiede mai a un uomo se c'è un tocco maschile; per non parlare dell'idea che ci siano cibi da donne: nessuno si stupisce se un uomo prepara piatti con fiori eduli, perché lo si fa per il menu di frattaglie di Agnese Loss? Se parliamo di cucina con chef competenti e di talento, parliamo di tecnica, prodotti, visione e tutto quel che riguarda il cibo.
Se affrontiamo invece questioni di genere, facciamolo cercando di comprendere le implicazioni che ne derivano: a nessun uomo si domanda come fa a conciliare vita privata e lavoro, e dato che questa conciliazione può rappresentare un ostacolo alla carriera, bisogna chiedere e pretendere che venga eliminato o quanto meno equamente distribuito.
Quando Erika Gotta de La Busch racconta che stava per cambiare mestiere dopo varie esperienze negative avute in cucine a dominanza maschile, si dovrebbero drizzare le antenne, anche perché racconti simili si ripetono con frequenza preoccupante, «Quando entri in cucina e sei donna, magari sei piccola, incontri più difficoltà rispetto a un coetaneo uomo» aggiunge Carlotta Delicato. Di quali difficoltà parliamo? Non possono essere di ordine meramente fisico, perché se lo sono significa che c'è qualcosa che non va nell'organizzazione del lavoro: insomma se non ce la fai a lavorare per 15 ore al giorno, il problema non è che sei donna e dunque troppo debole, ma sono le 15 ore. Non diamo voce al luogo comune che il lavoro in cucina è troppo faticoso per una donna, ma capiamo cosa implichi questa fatica e soprattutto da cosa derivi, perché forse il problema è che è un lavoro costruito a misura di uomo. Cerchiamo per fare questo esercizio per tutti i luoghi comuni, che offuscano la capacità di analisi. Non a caso Delicato dice che il suo è stato un percorso a ostacoli che le ha fortificato il carattere, aggiungendo «Anche il mondo si sta accorgendo di noi». Ora le cose stanno migliorando, ma ricordiamoci che l'invisibilità è il primo strumento di discriminazione e subordinazione.
La cucina è donna? Preferiremmo fosse queer
Ci piacerebbe poi non sentire più formule come "la cucina è donna", come se fosse una cosa di cui compiacersi: la cucina è (stata) donna, per secoli, perché alle donne non era consentito fare altro, lavorare e avere una indipendenza economica (e dunque libertà e autodeterminazione), per secoli occuparsi della casa non era una scelta ma un obbligo, e quando pure le donne avevano un loro impiego fuori casa, non veniva riconosciuto loro altro ruolo che quello di angelo del focolare. Con quella zuccherosa definizione che è mancanza di reale rappresentazione. E non dimentichiamo, mentre parliamo di questione femminile, che la cucina è un luogo in cui vige un binarismo anacronistico, dove non si parla mai delle molte forme di identità e orientamento sessuale. Cose che nel mondo ideale non dovrebbero interessare nel posto di lavoro, ma non perché condannate all'invisibilità. Fino a che non superiamo questo scoglio, cambiamo gli slogan: dite che la cucina è donna, preferiremmo fosse queer.