È ancora possibile rimanere colpiti dalla tradizione? Oppure abbiamo già visto tutto? Le cosiddette trattorie moderne, capaci di attrarre il pubblico promettendo un’interpretazione più curata dei grandi classici, continuano ad aprire. Ma non sono più una novità e, talvolta, convincono meno di un’osteria vecchia scuola, considerando pure il conto salato in cui ci si può imbattere a fine pasto. Anche nel fine dining diversi ristoranti hanno costruito il loro successo partendo dal registro tradizionale o, meglio, dalla sua rivisitazione. Quante volte abbiamo sentito dire «tra tradizione e innovazione»? Spesso i più grandi chef sono quelli che conoscono il passato gastronomico a menadito. La storia non si può ignorare, nemmeno in cucina. Lo ha sottolineato a più riprese Ferran Adrià, rimproverandoci di non conoscere a sufficienza Bartolomeo Scappi, colto gastronomo e cuoco dei pontefici, figura rinascimentale dotata di rara «attenzione agli usi locali, alle tante declinazioni che la cultura del cibo assume in Italia (M. Montanari)». Non ha alcuna intenzione di abbandonare la tradizione, intesa altresì quale identità di un territorio che lo rappresenta, l’executive chef de La Terrazza Salvatore Bianco. Crede nella ricerca e nella tecnologia per valorizzare la materia prima con cui perfezionare capisaldi come lo spaghetto al pomodoro. E in quest’ottica desta particolare interesse il lavoro minuzioso fatto proprio sulla solanacea rossa originaria delle Americhe.
Evoluzione del passato
Il cuoco della provincia napoletana è responsabile della proposta food dell’Hotel Eden di Roma, struttura 5 stelle luxury della Dorchester Collection. Dall’aprile del 2024 ha ereditato la gestione del ristorante La Terrazza e degli altri segmenti dell’offerta, prima nelle mani di Fabio Ciervo. Con un curriculum di tutto rispetto nell’hôtellerie — una stella alla guida de Il Comandante del Romeo di Napoli — e forte degli insegnamenti del maestro Marchesi, per cui ha lavorato all’Osteria dell’Orso, nella nuova avventura capitolina si rende protagonista di una cucina d'impronta mediterranea, che non vive di eccessi stilistici facendo leva piuttosto sulla riconoscibilità dei sapori e per questo sulla memoria gustativa degli ospiti. Come ci spiega, «non bisogna estremizzare un concetto in realtà molto semplice, la cucina. L’utilizzo spasmodico della tecnica rischia di far perdere di vista l’obiettivo: far star bene chi ci viene a trovare. Ciò che ho imparato nella mia carriera deve fungere da strumento di innovazione veicolato alla realizzazione del piatto». Considerazione che aiuta a cogliere meglio la logica dietro il degustazione La Metamorfosi di Narciso, un menu con portate semplici, dirette, comprensibili, dedicato agli ospiti «più che a noi cuochi, a volte narcisi (nel dare spazio a virtuosismi tecnici)».
Teniamo bene a mente le parole dello chef a Identità Golose: «Per me, il fine dining non deve staccarsi eccessivamente dalla tradizione». E quando li chiediamo di approfondire quanto detto al congresso aggiunge: «Per innovare è fondamentale guardare a ciò che è stato. Come dire, l’arte culinaria del futuro non sarà una rottura totale con il passato, ma una sua evoluzione». Insomma, per costruire il futuro, la storia della gastronomia è una fonte inesauribile d’ispirazione. E fra gli addetti ai lavori non è il solo a pensarlo.

Lo spaghetto al pomodoro di Salvatore Bianco, fuori carta de La Terrazza
La ricerca sul pomodoro
Nonostante il contesto internazionale in cui opera, il cuoco non dimentica le proprie origini. L’identità partenopea viene espressa a caratteri cubitali dalla ricerca portata avanti sul pomodoro, «ingrediente con cui poter rappresentare un popolo». Interessante lavoro sulla maturazione del frutto che Bianco presenta attraverso una pastasciutta. Un fuori carta che nasce dalla verticale di pomodoro personale («nell’area di Napoli siamo abituati a fare conserve in casa»), ma anche dalla mania sua e del vice, Raffaele Langella, di studiare le possibili sfumature della materia prima. Per la produzione vengono adoperate tre cultivar diverse: datterino caramella, corbarino e San Marzano. Si fanno prima pastorizzare in vasocottura. Solo dopo si inizia con la “stagionatura”, conservati a temperatura ambiente tramite una soluzione salina al 5%. Ogni annata — al momento quelle di datterino — manifesta una differente concentrazione degli zuccheri, variabile in base all’evaporazione dell’acqua interna al pomodoro. Con l’evoluzione compaiono note amarognole, mentre l’acidità diventa «quasi rotonda. Si sviluppa un equilibrio fra acido, dolce e amaro molto interessante. Un che di umami», apprezzabile all’ennesima potenza nello spaghetto, in cui sono presenti varie maturazioni della solanacea rossa, proveniente in tal caso dal Napoletano.
La legge italiana attuale consente un tempo massimo di conservazione della durata di 3 anni. Perciò al ristorante non possono essere somministrati esemplari più vecchi di così. Anche se, a forza di rispondere alle nostre domande, il cuoco campano si è lasciato sfuggire che gli sforzi si stanno spingendo oltre, con dei risultati incoraggianti, persino a distanza di 7 anni. Sempre sotto la consulenza di un laboratorio d’analisi scientifica che non starebbe riscontrando alcun rischio sanitario. Una produzione limitata di “millesimati” da cui si tira fuori un primo dal sapore unico, disponibile soltanto su richiesta.