Un mestiere a rischio, quello del critico gastronomico, non c’è che dire. Invidiatissimo ma pericoloso. Per la salute di chi lo fa, s’intende. Prendete il caso di Pete Wells, 61 anni, acclamato e caustico recensore di ristoranti per il New York Times. Sul suo giornale annuncia ai suoi lettori l’addio alle armi (forchetta e coltello, ovviamente) dopo dodici anni di onorato e ben nutrito servizio, a causa di un ripensamento del suo stile di vita provocato da una serie di controlli medici non proprio incoraggianti. Controlli fatti dopo più tempo del necessario, probabilmente, come lui stesso ammette. «Ero più o meno a metà di una lista di circa 140 ristoranti che avevo in programma di visitare prima di scrivere l’edizione 2024 della guida The Best 100 Restaurants in New York City. Ed era chiaro che non fossi nella forma migliore della mia vita».
Valori sballati
Le cose però stavano peggio di quanto Wells fosse disposto ad ammettere. I valori relativi a colesterolo, glicemia e ipertensione non erano affatto incoraggianti. «I termini pre-diabete, fegato grasso e sindrome metabolica aleggiavano attorno a me. Ero tecnicamente un obeso. D’accordo, non solo tecnicamente». Wells così ha immaginato di dover cambiare il proprio stile di vita «non appena avessi mangiato nei settanta ristoranti del mio foglio excel». Ma una volta giunto alla fine della maratona gastronomica Wells si è accorto di una cosa strana. «Non avevo più fame. E ancora non ne ho, almeno non nel modo in cui l’avevo prima». Da cui la decisione di lasciare il ruolo bramatissimo di critico gastronomico di uno dei quotidiani più importanti del mondo, nel quale si era insediato nel novembre del 2011 succedendo a Sam Sifton.
Trucchi salvavita
Wells nel suo articolo di saluto ai foodies newyorkesi analizza i paradossi di una condizione che ti conduce a lasciare un lavoro che ti piace per il motivo stesso per cui ti piace. E del resto «la prima cosa che impari come critico gastronomico è che nessuno è disposto ad ascoltare le tue lamentele». Già, perché sei pagato per fare quello che gli altri pagano per fare. Ma il fatto è che quando provi un ristorante ogni giorno, spesso due volte al giorno, finisci per introdurre nel tuo corpo una quantità di calorie, di grassi, di zuccheri superiori a quanti il tuo corpo sia fabbricato per accettare. E non a caso parlare di peso, di salute, di forma fisica è quasi tabu nel mondo della critica enogastronomica (anche in Italia). «Noi evitiamo di pronunciare la parola peso come gli attori si guardano bene dal dire Macbeth», scherza Wells. Un esorcismo che però non cancella i danni che chi recensisce ristoranti non occasionalmente infligge al suo corpo. «E’ il lavoro meno salutare d’America», concorda con Wells Adam Platt, uno che ha recensito ristoranti per ventidue anni e che quando ha mollato, un paio di anni fa, ha iniziato una odissea sanitaria per rimediare a una vita XXL. Wells racconta le vicissitudini e i trucchi di altri colleghi per sopravvivere a una dieta folle di piatti sempre super-elaborati e di menu degustazione di nove portate (alcol escluso), da S. Irene Virbila, che ha mangiato fuori sei sere a settimane per vent’anni per il Los Angeles Time e che aveva l’abitudine di farsi accompagnare da un uomo che finisse i piatti per lei fino a Christiane Lauterbach, critica gastronomica per un magazine di Atlanta per quarant’anni, che sostiene di aver trovato un rimedio per stare in ottima salute: «Non andare mai dal medico». Una regola che molti giornalisti gastronomici applicano alla perfezione.
Lo smoking a noleggio
Insomma, Wells lascia. «Quando misi per la prima volta piede al Times un reporter mi disse di non identificarmi troppo con qualsiasi mansione avessi svolto. "Ogni lavoro al Times è come uno smoking a noleggio" Io annuii ma non avevo capito dove fosse il punto fino a quest’anno. E’ tempo di restituire l’abito». Ehi, si è liberato il posto di lavoro forse più pericoloso dell’intera città di New York.