“Non ti potrò scordare
o bella pagnottella,
tu sei la viva stella
che brillerà per me.
Ricordi le patate
piantate al Valentino?
Ci manca pure il vino,
di fame ci fan morir!
La gioventù non sta più su.
Si sente un certo languor,
in Italia si vive d'amore!”
Le canzoni contro la fame
Hanno sofferto la fame, ma non hanno mai perso lo spirito e il senso dell'umorismo. Per sdrammatizzare le sofferenze, durante la Seconda Guerra Mondiale gli italiani iniziano a far circolare canzoncine ad hoc, con versi cuciti sulle musiche di regime. Come questa canzonetta sul pane e le pietanze ormai dimenticate creata sulle note della popolare “Piemontesina bella”. Perché se fra restrizioni e morsi allo stomaco la vita si faceva sempre più dura, altrettanto forte diventava la resistenza e la tenacia delle famiglie più povere. Non c'era tempo per lamenti e proteste: era l'epoca della pragmatismo, del senso del dovere, le responsabilità. Ma anche dello stimolo creativo e la ricerca delle soluzioni alternative.
I surrogati
“Dobbiamo considerarci soldati anche nel rancio” era uno dei più noti slogan fascisti incentrati sulla tavola. E così, uno dopo l'altro, iniziarono a sparire – o quantomeno a ridursi al minimo – tutti i generi alimentari. Che vennero, però, prontamente sostituiti da una serie di surrogati, meno gustosi, certo, più pratici ed economici, ma che per tempo hanno rappresentato una delle maggiori forme di sostentamento di quegli anni.
Il provvedimento sul caffè
Primo prodotto a essere tagliato dalla dieta fu il caffè, rimpiazzato dall'orzo o dalla cicoria. Quei pochi che avevano la fortuna di procurarsi dei chicchi veri, ne conservavano i fondi e li riutilizzavano più e più volte per preparare altre bevande. Nel '39, arriva il provvedimento della Camera dei fasci e delle corporazioni, emanato dal presidente Costanzo Ciano, che bandisce l'uso dell'espresso al bar della Camera e alla Presidenza del Senato. Un primo passo che dovrà essere presto imitato anche dagli altri circoli privati.
Le alternative
Fra i sostituti più comuni, il caffè di cicoria, prodotto nato attorno alla prima metà dell'Ottocento, realizzato con le radici della pianta scaldate fino a caramellizzare dello zucchero. Altre alternative erano l'orzo mondo (o nudo), cereale tipico del territorio marchigiano, oppure il caffè di ghiande, ottenuto tramite tostatura del frutto. Certo, risulta difficile immaginare oggi una vita con così tante limitazioni, ma i nostri antenati, di grande forza d'animo e risolutezza, era abituati a problemi più gravi, come scrive Lunella De Seta nel suo “La cucina del tempo di guerra” del 1942: “Ben altro c'è a cui pensare seriamente all'infuori dell'aroma di una fumante tazza di caffè”.
Le uova, il tè, il dado
Il caffè fu solo il primo di una serie di prodotti che iniziarono a scarseggiare. Se per i contadini la cucina era un affare più semplice, la questione si faceva molto diversa per le famiglie in città che avevano più difficoltà a recuperare uova e burro. Come sostituto delle uova c'era l'Ovocrema, che corrispondeva a 8 rossi d'uovo, mentre come bevanda calda si iniziò a diffondere il karkadè (detto anche tè di ibisco), infusione dei petali secchi del fiore di ibisco, dal colore rosso intenso e il sapore leggermente acidulo, “una bevanda assai gradevole al palato e di ottimi requisiti, poiché contiene una ricchezza di vitamina c”, come afferma la De Seta.
Fra i prodotti più rari, poi, la carne (disponibile solo in determinati giorni della settimana), prontamente sostituita dagli estratti. Già presente da fine Ottocento, il dado – venduto inizialmente in vasetti di vetro e poi, in seguito, in cubetti – cominciò a circolare con più frequenza nei periodi di carestia, a partire dal primo dopoguerra, impiegato per la realizzazione di brodi e minestre.
I consigli delle autrici: l'olio d'oliva fatto in casa
Tantissime le donne che scrivevano - solitamente sotto pseudonimi - libri o rubriche sui giornali, dispensando consigli per le massaie, vero motore dell'alimentazione a cui era affidato l'arduo compito di preparare pranzo e cena con quel poco che c'era. Fra i suggerimenti, troviamo un'ulteriore surrogato, stavolta fatto in casa, proposto dalla De Seta. A riportarlo è Roberta Pieraccioli in “La Resistenza in Cucina”: “Per 125 grammi, servono 24 grammi di olio di semi di lino e un litro scarso di acqua; si uniscono a freddo, si mescolano con un cucchiaio di aceto, una presa di sale e una puntina di zafferano, si mette il tutto sul fuoco e si fa tenere il bollore a fuoco lento per una ventina di minuti, poi si cola filtrando con una garza doppia e si imbottiglia. Questo olio è adatto per condire ma non per friggere”.
Di Lunella De Seta, Petronilla, Lidia Morelli e altre scrittrici che hanno contribuito alla creazione di una cucina economica indimenticabile parleremo la prossima volta. Qui, una ricetta tipica del tempo.
Purè di cipolle, gli ortaggi dei poveri
Ancora oggi un ortaggio molto economico, le cipolle erano spesso l'unico prodotto che le donne riuscivano a procurarsi, oltre a essere uno dei più coltivati negli orti, proprio perché non aveva bisogno di molta cura. Ne parla spesso Petronilla, utilizzandolo come condimento per la pasta oppure gustandolo nella versione stufato, ma anche la Pieraccioli nel suo volume dedicato alle ricette di sua nonna Argia. In questo caso, si tratta di un purè che, “a seconda se si scelgono cipolle rosse o bianche” sarà “rossastro o bianco e di sapore più o meno forte”. Le dosi, naturalmente, sono piuttosto generiche, ma è parte del fascino delle ricette casalinghe.
La ricetta: purè di cipolle di nonna Argia (da libro La Resistenza in Cucina, Roberta Pieraccioli)
Cipolle in numero adeguato alle persone che si devono mettere a tavola
Un po' di burro
Sale q.b.
Pepe q.b.
Brodo di carne anche fatto col dado
Un paio di tuorli d'uovo sodo
Si tagliano le cipolle a fettine sottili e si mettono ad appassire in una padella con un po' di burro, sale e pepe, qualche cucchiaio di brodo e i tuorli sfarinati. Si mescola bene lasciando stemperare, poi si passa tutto al passaverdure e si fa cuocere, sempre mescolando. Se il composto risulta troppo sodo, si aggiunge un po' di brodo. Se è troppo liquido si può assodare con una patata lessa. Va servito caldo e se avanza può diventare la base per un ottimo sformato.
a cura di Michela Becchi
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