C'era la carta annonaria, la tessera nominativa per acquistare cibo dai fornitori in giorni prestabiliti, c'erano le norme per il razionamento dei generi alimentari e c'erano ricette povere costruite attorno ai pochi ingredienti a disposizione. È il ritratto della cucina al tempo della Seconda Guerra Mondiale, una tavola fondata sull'autarchia, l'auto sostentamento della nazione, un modello economico iniziato ancora prima della guerra, con l'intensificarsi del regime fascista.
Il ruolo della donna
Sono i primi anni '30, il tempo della Radiobalilla (430 lire con rate di diciotto mesi), della Fiat 508 e poi, nel '36, della celebre Topolino, sogno di molti italiani. È un tempo in cui la figura della donna assume un ruolo determinante, proprio perché legato al cibo, oltre che all'immagine della madre prolifica, esempio di italianità. “A portare i soldi ci pensa il marito, che non svolge alcuna attività domestica, getta un'occhiata distratta ai bambini e va sempre accontentato”, si legge ne “Le signore del fascismo” di Marco Innocenti. Sono gli anni della pubblicazione del volume “Per voi massaie d'Italia” di Lidia Morelli, ode al ruolo della donna rurale, definita “reggitoria”, ovvero colei che “regge, governa, dirige, dispone, sa quel che occorre e quanto occorre per mandare avanti la barca”.
Cucina essenziale
È alle massaie, infatti, che spetta il compito di organizzare e gestire la cucina al meglio, con quel poco che c'è. Donna Clara (pseudonimo della Morelli) suggerisce quindi di recuperare un concetto di sobrietà, esaltando gli alimenti semplici, primi fra tutti i fagioli “cibi sanissimi che non possono che farvi bene”, ma anche “i prodotti della stalla, del pollaio o della conigliera”. Le più agevolate sono le famiglie di campagna, che possono beneficiare dei prodotti dell'orto e della fattoria, mentre quelle di città devono fare affidamento ai fornitori attraverso la tessera annonaria (disponibile in una sola copia da custodire gelosamente: era vietato, infatti, richiederne una seconda).
L'ammasso e il razionamento della carne
Dall'altro lato, anche la vita dei produttori non è facile. Oltre alla carta, infatti, a partire dai primi anni '40 c'è l'ammasso, l'obbligo di consegnare buona parte dei prodotti allo Stato. Grano, avena, vinacce per la distillazione, fave: ogni ingrediente è sottoposto all'ammasso, con una piccola quota di trattenuta per il fabbisogno familiare del fornitore (2 quintali di grano per persona, per esempio). Intanto, le regole per l'acquisto di cibo si fanno sempre più ferree: dal 1 dicembre 1941, ci si può recare dal macellaio solo il sabato o la domenica mattina, mentre per le frattaglie – fra le più consumate per via del prezzo basso – si aspetta il lunedì, il martedì o il mercoledì. Una norma applicata poi anche nei ristoranti, che a partire dal 18 gennaio 1941 possono servire carne solo nel fine settimana.
Resistenza agricola
Ma i cittadini non demordono ed escogitano soluzioni alternative per conservare qualche alimento. Il malcontento scaturito dall'ammasso, infatti, spinge contadini, pastori e casari a nascondere i prodotti frutto del duro lavoro, come racconta Adelmo Cervi nel suo “Io che conosco il tuo cuore”, ricordando le parole del papà: “Fratelli contadini! Anche noi abbiamo diritto di vivere, anche noi siamo degli esseri viventi e non bestie come ci tratta e considera l'attuale governo […]. I prodotti ricavati dalle nostre fatiche non li consegneremo più ai ladri degli ammassi, ma li venderemo ai nostri fratelli operai a dei prezzi umani che essi possono pagare”. E tutti quei prodotti preziosi, spiega Bruna Bertolo in “Donne e Cucina in tempo di guerra”, quel grano, “quelle uova, quel burro sarebbero anche serviti a sfamare in seguito i partigiani”. Una resistenza agricola, rurale, culinaria. Proprio come racconta Cervi: “Resistenza fu anche il burro sotto la concimaia”.
È in questo tempo che nascono i surrogati, dall'Ovocrema in grado di sostituire 8 rossi d'uovo, al caffè di cicoria, ed è sempre in questi anni che nasce la borsa nera, speculazione sui generi alimentari che scarseggiavano, un mercato illegale per trovare le merci scomparse, iniziato tra il 1941 e il 1942. Ma questa è un'altra storia, che avremo modo di approfondire in futuro.
Le ricette
Farinata senza ceci, il recupero del pane raffermo
Quella che oggi conosciamo è una torta salata molto bassa, diffusa soprattutto in Liguria e Toscana, a base di farina di ceci, acqua, sale e olio extravergine di oliva, già presente – seppure in versione diversa – al tempo degli antichi romani e greci. La farinata che si preparava ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, invece, era ben diversa e molto più essenziale. A raccontare del suo consumo è Roberta Pieraccioli, nel libro “La Resistenza in Cucina”, in cui riporta la ricetta di sua nonna, un piatto “molto economico e capace di riempire bene la pancia”. Una preparazione tramandata di generazione in generazione, fatta con farina gialla e avanzi di pane secco, a meno che la razione di farina di mais prevista dalla tessera non cominciasse a scarseggiare: in quel caso, “si mescolava con le patate lesse schiacciate bene e amalgamate”.
Finta trippa: quando la carne non c'è
Fra i prodotti più duramente colpiti dalle norme di razionamento, la carne, riservata a pochi eletti e solo in date prefissate (che non garantivano, comunque, disponibilità al 100%: accadeva spesso, infatti, che gli stessi fornitori avessero esaurito le scorte). Un po' più difficili da reperire in città, le uova erano un ottimo sostituto della carne per i contadini. Nasce proprio nelle campagne romane la ricetta della finta trippa, ovvero una frittata tagliata a striscioline e cotta nella passata di pomodoro. Un piatto in voga ancora oggi, condito con una generosa spolverata di pecorino grattugiato, che ricorda la vera trippa romana al sugo sia per la forma che per la consistenza.
Torta di pane: il dolce dei contadini
Fra i tanti ricettari storici del tempo, quello del '39 di Maemi, pseudonimo sotto cui si celava l'autrice di “Novantanove e più ricette”, celebre volume con i disegni di Otto Maraini. Nella sezione dolci, spicca la torta di pane, un grande classico della cucina povera, dolce golosissimo nella sua semplicità, recentemente tornato alla ribalta e rielaborato da cuochi, fornai e pasticceri in diverse varianti. Pane raffermo bagnato nel latte o in acqua, poco zucchero, qualche uova e per i più fortunati anche amaretti, uva passa e cacao: questi gli ingredienti che compongono il dolce saporito, privo di farina – merce rara e costosa – proprio per via della presenza del pane. Quella che riportiamo è la versione moderna e più ricca del Panificio Davide Longoni di Milano.
La ricetta: torta di pane di Davide Longoni
Ingredienti
250 g. di pane raffermo senza crosta
1 l. di latte
200 g. di biscotti secchi
200 g. di amaretti tipo Saronno
2 uova
150 g. di cacao amaro
100 g. di cioccolato fondente a scaglie
100 g. di zucchero di canna
200 g. di uvetta ammollata
50 g. di cedro candito
Pinoli q.b.
Pan grattato q.b.
Rhum q.b.
Far ammollare il pane nel latte in frigorifero per circa 2/3 ore. Aggiungere gli altri ingredienti e impastare fino a ottenere un composto omogeneo. Versare l'impasto in una teglia precedentemente imburrata e spolverare di pan grattato. Decorare con i pinoli e cuocere in forno a 180°C per 45 minuti.
a cura di Michela Becchi
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